Primaria di Bonefro


Relativamente alla campana, segnalo un episodio di cronaca / storia avvenuto nel 1943, riferito da me (nel primo volume, pp. 108-109; non ricordo chi me l'aveva raccontato: forse ze' Luigge P'trucce) e dalla ricerca scolastica dell'anno scolatico 1996-1997, a cura dell'ins. Nicolina Montagano: la referente è la signora Maria Luigia Iarocci Santoianni (Spacchemundagne)

Fonte Michele Prof. COLABELLA



Campana mezzana

foto Giuseppe Arch. SANTOIANNI


Concorso Regionale di Ricerca storica Anni 1943-45
Scuola Elementare statale Aldo Moro Bonefro

Gli alunni:
BACCARI Giuseppe
BUCCI Domenico
COLOMBO Luigi
DI MARZO Antonio
D’ONOFRJO Nicola
FANTETTI Giuseppe
GIANGIOPPO Luigi
GIULIANO Michele
LOMMANO Antonella
TAVONE Gianni

L’insegnante di storia:
MONTAGANO Nicolina

Le insegnanti contitolari:
AMORUSO Maria
COLABELLA Carmela
VACCARO Clementina

della classe quinta
RINGRAZIANO
il presidente della sezione di Bonefro

dell’Associazione Nazionale Famiglie dei Caduti e Dispersi in Guerra

e quanti hanno contribuito direttamente ed indirettamente fornendo

materiali e notizie per la stesura della presente


Ringraziamo gli alunni della classe Quinta elementare “A.Moro di Bonefro, le insegnanti e tutti coloro che hanno contribuito con le loro testimonianze alla realizzazione di questo lavoro per averci offerto la possibilità di conoscere una fase, seppur dolorosa e sconvolgente, della nostra storia.

Abbiamo ritenuto opportuno e doveroso inviare alle stampe “Così hanno vissuto ala seconda guerra mondiale i bonefrani” per divulgarlo all’intera cittadinanza.


                                                                                                     L’ Amministrazione Comunale


Il giorno 12 maggio 1997, al Teatro Savoia di Campobasso, la classe quinta, 3a classificata tra circa 50 classi partecipanti (e preceduta solo da due classi di scuola media) è stata premiata con una targa ricordo, un libro sul Molise e del materiale scolastico.

GIUDIZIO DELLA COMMISSIONE
ESAMINATRICE

Lavoro ottimo per bontà d’impostazione, di disegni, di ricerche ben centra­te, accurato e ben presentato tipograficamente per la chiarezza e l’ordine della stampa


NOTA INTRODUTTIVA

Noi alunni della classe quinta dell’Istituto comprensivo di Scuola Materna, Elementare e Media di Bonefro, in seguito al bando di concorso regionale “per la ricerca e l’arricchimento della storia locale e per l’approfondimento di fatti e di avvenimenti che in ogni modo abbiano riguardato le popolazioni molisane durante gli anni della II Guerra Mondiale”, ci siamo impegnati a ricostruire gli ultimi anni della guerra nel nostro paese.

Abbiamo utilizzato testimonianze dirette
- di soldati che erano al fronte
- di uomini, donne e bambini che hanno “sofferto” a casa:

- nonno Costanzo, ex fante nel decimo reggimento, ottava compagnia, secondo battaglione, combattè come volontario in Grecia; ferito e fatto pri­gioniero, fu deportato in un campo di concentramento in Germania;

- la signorina Cleonice, bambina curiosa di 8-9 anni all’epoca della guerra;

- la signora Lina, madre di un ragazzo ferito mortalmente, nel centro abita­to, dallo scoppio di una bomba a mano militare che, insieme ad altri cinque ragazzi, batteva con un chiodo per aprirla e conoscerne il contenuto;

- la signora Maria, giovane sposa, vedova di un soldato morto per malattia;

- il signor Giuseppe, orfano a dieci anni di un agricoltore deceduto in segui­to all’esplosione di una mina lasciata dalle truppe tedesche in ritirata;

- il signor Michele, orfano, ancora bambino, di padre, tuttora disperso;

- la signora Carmela, orfana a soli nove mesi di padre, ritenuto disperso in Russia fino al 5 maggio 1993; morto il 6 marzo 1943 come da comunicazio­ne del Ministero della Difesa;

- il signor Giuseppe, orfano a due anni e mezzo di padre partito per i Balcani (Iugoslavia), prigioniero, ferito, dichiarato disperso fino al 1978;

- nonna Leonilde, testimone dodicenne della requisizione della propria casa;

- nonna Assunta, ventunenne testimone indiretta dell’evacuazione della pro­pria masseria;

- la signora Maria Luigia, allora diciassettenne, promotrice della “difesa” della campana ed esecutrice di ordini dati dal Commissario prefettizio;

- il signor Francesco, testimone, figlio di Onofrio Fantetti, proprietario di due pullman di linea (S.Croce-Bonefro-Scalo) e del mulino, minato dai tedeschi;

- il signor Luigi, impiegato sul comune di Bonefro dal 1937 al 1974;

- il signor Gino, figlio del proprietario di Lillino e Cardillo;

- la signora Giulia, allora dodicenne, collaborò col nonno a nascondere due soldati inglesi;

- il signor Tonino, “scugnizzo” bonefrano di 11 anni all’epoca della guerra;

- il signor Luigi, allora sedicenne, esecutore di ordini imposti dai tedeschi.

Abbiamo inoltre consultato documenti, opere d’arte, foto, resti, testi di autori locali. Tutto il materiale raccolto ci ha permesso di conoscere i risvol­ti umani della guerra al fronte e a casa.

 

LA GUERRA AL FRONTE
Le peripezie di nonno Costanzo

"La partenza"
Sono nato nel 1919. Sono partito, militare di leva, 11 4 aprile 1939. Scoppiata la guerra, sono stato trattenuto alle armi e mandato a Coo nel Dodecanneso, in Grecia. Sono stato lì fino al 1943, quando, in seguito all’armistizio, da alleati diventammo nemici dei tedeschi.


Coo, Grecia
Nonno Costanzo, il terzo da destra, durante il cambio di guardia, davanti alla Caserma.

 

Dopo L’otto settembre, per noi è cominciata la guerra. Abbiamo combat­tuto contro i tedeschi che avevano occupato prima Rodi, poi Coo dove abbiamo combattuto tre giorni.

Il ferimento

Il tre dicembre 1943 sono stato ferito. Il proiettile mi ha trapassato il polso, è penetrato nella gamba destra ed è stato estratto dopo undici mesi. Ferito, sono stato fatto prigioniero; mi hanno portato all’ospedaletto da campo tedesco e quindi in aereo a Rodi. Dopo mi hanno detto che mi avreb­bero portato in Italia, mentre mi hanno condotto in Germania, nella Sassonia, a Dresda.

Il campo di concentramento

La prigionia in Germania è stata dura: 300 g di pane al giorno e un mestolo di brodaglia al posto della pastasciutta. Ci davano un filone di pane di Kg. 1,800 che dovevamo dividere fra sei persone. Avevamo costruito una rozza bilancia con un bastoncino di legno e due laccetti ai lati: pesavamo le porzioni di pane che dovevano essere uguali per non litigare.
Dopo sei mesi d’ospedale da prigioniero, mi hanno mandato - zoppo zoppo - a lavorare in fabbrica senza ricevere paga tranne un marco da campo di colore rosso con cui potevamo comperare un bicchiere di birra.
Il campo di concentramento comprendeva circa 50 baracche di legno piene di prigionieri, circondate di filo spinato attorcigliato da cui non si poteva proprio scappare. Nei quattro angoli del campo c’era una torre con la guardia e una mitragliatrice pronta a sparare se qualcuno fuggiva, ma non ci ha provato mai nessuno.
Uscivamo in fila accompagnati dalla sentinella negli spostamenti tra il campo e la fabbrica. Per strada vedevamo mucchi di immondizia, di rifiuti: c’erano bucce di patate, di barbabietole, carote... I prigionieri rovistavano, prendevano le bucce e le mangiavano per la fame. Vedendo ~i miei amici ho avuto anch’io il desiderio di rovistare e con un pezzo di ferro cercavo qual­cosa da mettere sotto i denti. Ho trovato una scorza di pane e la stavo por­tando alla bocca. All’improvviso mi parve che qualcuno mi chiamasse:
“Costanzo, che stai facendo? Stai bene e ti vuoi ammalare?” Ho buttato via tutto: scorza di pane e bacchetta di ferro e non ho più rovistato tra i rifiuti:
se dovevo morire non sarei certo morto perché mi procuravo io stesso qual­che malattia. Ai bordi della strada c’erano degli alberi di mele: con una spallata le facevamo cadere, le raccoglievamo e le mangiavamo. Un giorno ne raccolsi due e le divorai: quel giorno mi parve di sentirmi meglio! Ma quello fu il primo e l’ultimo giorno in cui le mangiai, perché il giorno suc­cessivo, proprio dietro di me, c’era la guardia che mi diede numerosi colpi sulla schiena col calcio del fucile, tanto da farmi camminare curvato per tutto il tragitto. Da. allora non le raccolsi più.

I tedeschi con noi erano barbari, cattivi, durante tutto il periodo della pri­gionia. Io, poi, nel 1961 sono emigrato in Germania e ho conosciuto i tede­schi come persone civili: c’era differenza come la notte e il giorno; sono dieci volte più bravi di noi italiani. Ci offrivano sempre qualcosa.

Il fidanzamento

Con mia moglie mi sono fidanzato durante la guerra: i nostri genitori hanno combinato loro il matrimonio.
“Costanzo, non ti piacerebbe quella ragazza?”
“Sì, mi piace, se ritorno...”
Così lei mi aspettava.
Nel febbraio del ‘44 le ho scritto e la risposta l’ho ricevuta solo nel mese di agosto a causa della guerra. Quando sono tornato a Bonefro, zoppicavo, ma lei mi ha accettato cosi com’ero. Una volta guarito perfettamente, non ho zoppicato più.

I forni crematori

Io non ho visto i forni crematori, ma tutti noi prigionieri sapevamo della loro esistenza. Spesso ci prelevavano dal campo di concentramento e ci por­tavano a fare una puntura. Ci spogliavamo e posavamo gli indumenti in una stanza dove si dovevano disinfettare. In una stanza a fianco c’erano tante docce e i soldati tedeschi ci mandavano lì dentro. Spesso, invece di aprire il rubinetto dell’acqua, aprivano quello del gas. Come vedevamo uscire l’ac­qua: Meno male!” dicevamo. Dopo esserci lavati passavamo dal dottore che ci faceva la puntura. Questo è successo tre-quattro volte.

L’amicizia

Con me c’erano altri prigionieri italiani, avevamo buoni rapporti: soffri­vamo tutti alla stessa maniera.
C’era un genovese nella mia stessa baracca. Una sera era così pensie­roso:
“A cosa pensi, alla fidanzata a Genova?”
“Ma quale fidanzata, Costanzo. Vedi le mie gambe: sono pelle ed ossa. Quanto possiamo ancora campare? Un mese, due... In Italia non ci tornere­mo più...”
“E dai, stai zitto...”
Poi non l’ho più visto
.

La fine della guerra

Un giorno, era il 24 o il 25 aprile del ‘45, ci arrivò un ordine: non si lavo­ra più. I giorni successivi ci fecero mettere a posto tutto il materiale da lavo­ro e ci portarono in una stanza; eravamo una cinquantina di prigionieri.
Sentimmo l’allarme: il bombardamento era vicino.
“Che cosa è successo?” chiedemmo.
Un maresciallo femmina rispose: “Va tutto male!”
Poi non sentimmo più niente.
Un giorno, verso i primi di maggio, ci portarono nel refettorio. Quel giorno ci trattarono bene. Mentre mangiavamo, arrivò il capo:
“Ragazzi, la guerra è finita. Potete rientrare in Patria, in Italia. Ci dovete perdonare, scusare: la guerra è brutale. Vi auguro di ritrovare famiglia e casa, ma tanti di voi non ritroveranno né famiglia, né casa”.
E ci spiegò come fare per tornare in Italia.

Il ritorno a casa

La prima notte del viaggio dormimmo in una stalla, sulla paglia. In ogni paese della Germania andavamo dal borgomastro e lui ci procu­rava da mangiare.
Tutto il viaggio fu un’avventura.
Sono partito dalla Germania il 9 maggio del 1945 e sono arrivato a Bonefro il 12 luglio sempre del ‘45.
A casa trovai tutto come quando ero partito sei anni prima.
Riabbracciai mia madre e gli altri miei due fratelli che erano stati in guerra come me. Il giorno stesso andai a salutare anche la fidanzata e pran­zai con lei. Ci sposammo nel dicembre dello stesso anno.
Ritrovai qualche amico, ma tanti non sono tornati; non sono tornati nean­che tre o quattro dei miei amici più cari.


DAL DIARIO DI NICOLA CAMILLONE

- . .E così, dal giorno primo dicembre 1940, indossai la mia giubba con i galloni di caporale. Molto contento per tale merito, svolgevo sempre con maggiore lena ed esperienza il mio continuo servizio da buon soldato...
….Si approssimava sempre più la festività del Santo Natale, già il primo lontano dalla nostra famiglia.
Ma nonostante tutto si conservava il morale al massimo, purché il tempo passasse con molta rapidità. Un solo pensiero mi aggravava di più e mi impediva finanche il sonno notturno: era quello dell’imminente nascita del mio, bambino. Infatti, quando fu esattamente il giorno 3 del mese di dicem­bre 1940 mi arrivò il famoso telegramma firmato da uno dei miei genitori, annunciandomi la bella notizia del mio bambino che era venuto al mondo...
... Mostrai il telegramma al mio sergente chiedendogli di concedermi possibilmente pochi giorni di licenza. La domanda ebbe esito negativo...
.Vivevo felice e contento per il mio bambino. Ma era già in agguato un’altra notizia molto grave che mi colpì al cuore: un telegramma del comandante della stazione dei carabinieri di Bonefro, attestava: “La madre del caporale Camillone Nicola, in forza presso codesto comando, versa in imminente pericolo di vita.” Nel giro di pochissimi minuti mi fu consegnata una licenza...
Finalmente arrivai a casa e mi diressi dalla mia povera adorata mamma che giaceva nel suo letto. Il cuore le batteva lentamente e il resto delle sue deboli forze l’abbandonavano di continuo, fino a quando perse definitiva­mente conoscenza. Fu la sua fine, esattamente in piena nottata del 24 dicembre 1940, la vigilia del Santo Natale.
Il mio cuore era colmo di dolore per la triste circostanza, ma non poten­do farne a meno mi diressi verso la culla dove dormiva il caro bimbo e gli coprii di tanti bacioni il suo bel viso...
.La tragica sera dell’8 settembre del ‘43, io e altri miei compagni d’uf­ficio, tra i quali anche il mio compaesano Antonio Porrazzo guardavamo dalle finestre del nostro ufficio un andirivieni di pattuglie tedesche con un’andatura furiosa, mitra alla mano, per la “caccia al piccione”. Fortunatamente non riuscirono ad individuare che in questa casa privata ci fosse sistemato l’ufficio militare, altrimenti saremmo finiti tutti nelle loro mani. Fummo fortunati perché una finestra dell’ufficio guardava verso la campagna: fu la nostra salvezza. Dalla boscaglia e la nostra abitazione ci separavano poche centinaia di metri. Eravamo tre fuggitivi; per non cadere nelle mani dei bruti tedeschi, io, il mio indimenticabile amico Antonio e un certo Santoro, prendemmo la decisione di darci alla macchia il più presto possibile per non finire presto o tardi nelle mani dei soldati tedeschi...
Quando fu notte piena, dai finestrini del vagone vedemmo arrivare velocemente circa venti militari tedeschi che si avventarono contro il treno. Uno di questi assalitori si avvicinò al mio compaesano Antonio Porrazzo, gli dette velocemente uno sguardo per qualche istante, si girò e passò avanti. Si presentò davanti a me, con la sua lampada elettrica dette uno sguardo alle mie calzature che erano militari e, in un lampo mi puntò la sua pistola sulla nuca e brutalmente mi spinse verso l’uscita del vagone. Pensai subito di subire la prigionia nelle mani di quei barbari nazisti. Non avrei mai pensato una simile fine. Appena i nazisti .ebbero terminato il loro compito, comin­ciarono a chiudere le porte dei vagoni per l’imminente partenza. Il mio amico Porrazzo Antonio, non potendo sopportare la mia mancanza, scese volontariamente dal treno e mi venne vicino, inginocchiandosi anche lui a pregare e, a bassa voce, mi disse: “Non ho avuto il coraggio di lasciarti andare prigioniero, mentre io, forse, potevo andare a casa, O tutti e due a casa o tutti e due prigionieri”. Questo suo gesto mi si è radicato sino al midollo...
... Sul convoglio, io e il mio amico facemmo cordiale amicizia con tre militari, sventurati come noi. Uno di questi propose di saltare dal treno se volevamo essere salvi. Per primo si lanciò il proponitore: nel medesimo tempo gli fu sparata una raffica di mitra dalle guardie che accompagnavano il convoglio; speravamo che non fosse stato colpito. Si lanciarono il secon­do, il terzo; il quarto fu il mio compaesano. Arrivò il mio turno. Non vi era scampo: appoggiai i piedi sulla pedana della porta del vagone, e, in un bat­ter d’occhio, mi lanciai nel vuoto. Feci a ritroso il percorso seguito col treno, per la ricerca dei miei commilitoni che erano saltati prima di me. Dopo aver percorso non oltre cento metri, avvistai il mio amico Antonio. Appena ci fu l’incontro, ci abbracciammo per la commozione di esserci sal­vati. Ci mettemmo immediatamente alla ricerca dei nostri tre amici: il primo che trovammo giaceva a terra già cadavere. Il secondo vedemmo che era disteso a terra ed urlava per una grave ferita alla gamba destra che lo rende­va incapace di muoversi. Il terzo amico, sano e salvo ci venne incontro... Portammo soccorso al ferito con l’aiuto dei contadini che lavoravano non lontano dal luogo in cui avvenne il tragico evento. I generosi contadini si preoccuparono anche del recupero della salma del povero e valoroso soldato caduto...
.Eravamo già nell’ultima decade del mese di novembre e la temperatu­ra si abbassava progressivamente. Il freddo cominciava ad essere pungente. Eravamo ridotti come Tarzan. Io, per equipaggiamento avevo il nome di una giacca con una sola manica, pantaloni a mezza gamba e stracciati, un pezzo della camicia su cui era restato un solo bottone e anche spaccato, un paio di ciabatte in precarie condizioni, allacciate con un corto filo di ferro che tene­va unito il resto delle tomaie. Parimenti erano le condizioni dell’amico Antonio Porrazzo.

 

….saranno state le ore 14,00 del 13 dicembre del ‘43, quando all’improvviso entrai in casa...

 

 



Gli oggetti usati da nonno Antonio al fronte

LA GUERRA IN PAESE

CRONOLOGIA DELLA SECONDA GUERRA
MONDIALE IN ITALIA

1940
10 giugno: l’Italia entra in guerra.
24 giugno: armistizio franco-italiano.
27 settembre: patto tripartito (Germania, Italia, Giappone).
ottobre: l’Italia invade la Grecia, ma l’operazione fallisce nel dicembre,

1941
22 giugno: Mussolini e Hitler dichiarano guerra alla Russia.
7 dicembre: Italia e Germania dichiarano guerra agli Stati Uniti.

1943
15 maggio: capitolazione delle forze dell’Asse in Africa.
10 luglio: ha inizio lo sbarco in Sicilia.
24-25 luglio: caduta di Mussolini.
3 settembre: armistizio di Cassibile.
8 settembre: l’armistizio viene reso noto; in Italia regna la confusione.
14 settembre: Mussolini liberato da paracadutisti tedeschi è condotto in
Germania.
23 settembre: Mussolini, tornato in Italia, crea la Repubblica di Salò.
13 ottobre: il governo Badoglio dichiara guerra alla Germania; l’avanza­ta viene fermata a Cassino.

1944
gennaio: gli alleati sbarcano ad Anzio.
12 Aprile: compromesso col quale Umberto diviene luogotenente.
4 giugno: liberazione di Roma.

1945
27 aprile: fucilazione di Mussolini.
28 aprile: il comando tedesco d’Italia si arrende a discrezione.

1946
2 giugno: il referendum decide per la Repubblica.

CRONOLOGIA DELLA Il GUERRA MONDIALE A BONEFRO

Settembre 1943:
- 3-4 episodio della campana

- primi giorni:
• arrivo in paese delle truppe tedesche;
• requisizione di alloggi di privati cittadini e di generi ali­mentari da parte dei tedeschi;
• sequestro dei pullman alla ditta Fantetti.

Ottobre 1943:
- primi giorni:
• arrivo delle truppe inglesi;
• tiri incrociati delle artiglierie nemiche;

- 7-8: morte del soldato indiano;
- 8: morte di un civile per lo scoppio di una mina in campagna (agro di Colletorto);
- scoppio di mine al Vallone Varco;
- 11-12: scontro ai Montazzoni tra soldati inglesi e tedeschi;
- morte di diversi soldati inglesi;
- 12: minacce al commissario prefettizio da parte di tre soldati tedeschi sbandati;
- episodio di Nicola Vaccaro;
- tre giovani bonefrani vengono presi come ostaggi dai soldati tede­schi sbandati e rilasciati dopo due giorni;
- la Germania si ritira;
- i tedeschi vanno via da Bonefro.

Novembre 1943:
gli alleati vanno via da Bonefro.

Dicembre 1943:
morte di un diciassettenne per lo scoppio di una bomba nella campa­gna di Bonefro.


Gennaio 1944:
indennizzo ai cittadini danneggiati dai tedeschi.

Aprile 1944:
morte di due civili per lo scoppio di una mina nella campagna di Bonefro.

Luglio 1944:
morte di quattro bambini per lo scoppio di una mina nel centro abitato.

1943/1946:
- ospitalità offerta ad alcuni sfollati calabri e napoletani;
- mercato nero.


MOMENTI VISSUTI DA UNA BAMBINA

La permanenza dei tedeschi a Bonefro
Tutti i giorni si vedevano passare per le strade camion di soldati tedeschi; si sentiva il rombo degli aerei nel cielo: c’era tanta paura!
I tedeschi... me li ricordo i tedeschi ... Erano tutti dei bei giovanotti; li vedevo quasi tutti i giorni per la strada.., erano alti, belli, biondi, ma sempre armati e in divisa con uno sguardo truce, severo; noi li temevamo.
A volte, a mezzogiorno mangiavano in piazza. Noi eravamo curiosi: li guardavamo: tenevano le scatolette con la carne. Se ci capitava una scatolet­ta di carne tra le mani, eravamo capaci di tirare fuori col dito quel poco di carne che rimaneva nel fondo.

L’inseguimento

Un giorno, non ricordo bene cosa sia successo: c’è stata una sommossa in paese, una sassaiola. Io ero desiderosa di vedere, di sapere e guardavo, insieme ad altri bambini, cercando di capire. Chi scappava a destra, chi a sinistra. Un tedesco, forse aveva bevuto un po’ o era stato offeso da qualcu­no, ha cominciato a rincorrermi: io correvo, allungavo le gambe più che potevo, avevo il fiatone; spingevo, bussavo, gridavo vicino alla porta di casa mia. Mamma subito mi ha aperto e ha richiuso svelta svelta il portone. Intanto lui bussava alla porta, certi colpi!
Di fronte abitava un sacerdote; sentendo quel trambusto, si è affacciato:
“Cosa fai? Lascia stare quella bambina, non ti ha fatto niente! Ha solo il difetto di essere curiosa!”.
E il tedesco si è calmato.
Io presi una tale paura, mi prese un batticuore che da allora stetti ben lontana dai tedeschi.

Le razzie

I tedeschi giravano per la campagna, nelle masserie dove i proprietari allevavano gli animali mucche, maiali, tacchini, galline. Entravano con pre­potenza e: “Kaputt!”; facevano prendere i polli, li facevano ammazzare e pulire, li prendevano e se li portavano e ai poveri contadini non restava altro che ubbidire a questi comandi imperiosi.

L’arrivo degli alleati
Quando vennero gli americani, venivano a liberarci, ci fu una grande festa: tutta la gente si riversò sulle strade a battere le mani, a gridare:
Evviva!
Il prete, Don Nicola Di Marzo, aveva fatto una raccolta di confetti: erano delle palline rotonde col liquore dentro e quando me li ha fatto vedere, io, che non vedevo quasi mai i confetti, mi leccavo le labbra, ne volevo proprio uno: “No! Questi li dobbiamo buttare ai soldati che ci vengono a liberare!”.
Quando arrivarono i carri armati, chi li guidava non si vedeva nemmeno, facevano impressione.
La gente buttava i fiori; Don Nicola i confetti. I ragazzi non avevano mai visto i confetti e si accalcavano per raccoglierli, tanto da fischiare la vita e andare a finire sotto i carri armati.

Un triste episodio

Per il paese si diceva che i tedeschi avevano perso la guerra, che se ne dovevano andare perché stavano avanzando i liberatori; prima di allontanar­si hanno seminato delle bombe sotto i ponti e per la campagna.
I ragazzi andavano a pascolare gli ovini e trovavano le bombe: erano fatte a forma di pacchi, di giocattoli, di penne.
Dei bambini hanno trovato una scatoletta; pensavano che fosse carne, cercarono di aprirla con i sassi facendola esplodere.
Quel giorno me lo ricordo bene: ci fu un’esplosione così forte: subito abbiamo pensato ad una bomba. Tutti correvamo verso il luogo dell’esplo­sione, gridavamo, piangevamo. Ci siamo avvicinati: ho visto un bambino piccolo come me, morto; tutte le schegge; un papà, una mamma piangeva­no. Il papà di un altro bambino era in campagna. Un bambino era scalzo, tutto sporco, tutto il corpo rovinato. E gli urli, le grida: tutti a piangere, a disperarsi. Erano quattro i morti e non si sapeva dove andare prima, c’erano quattro bare in paese.
Quante lacrime! Quanta sofferenza!

Un rito funebre diverso

Con l’arrivo degli americani è morto un soldato indiano e gli indiani hanno cremato il suo corpo.
Dalla finestra di casa mia vedevo una fiamma altissima e in mezzo alla fiamma bruciava il cadavere. Gli indiani danzavano, cantavano intorno al fuoco, eseguivano il loro rito funebre. Noi bonefrani eravamo tutti affacciati alle finestre e guardavamo incuriositi.
Poi hanno raccolto le ceneri e le hanno imbottigliate; hanno sepolto la bottiglia lungo la strada che porta a S.Croce di Magliano.
Dopo tanti anni i parenti, forse proprio la moglie, sono venuti a ripren­dersi le ceneri.

La carestia

C’è stata pure la carestia; la campagna rendeva pochissimo. I contadini seminavano e raccoglievano poco, poco poco. Quell’anno su molte spighe di grano c’era la carie, “ ‘u bb’fòne”, che conferiva ai chicchi colore ed odore sgradevoli. Il fenomeno era talmente accentuato, che i contadini erano costretti a lavare la massa di grano, poi la facevano asciugare al sole per poterlo macinare. Il grano non lo vendevano, serviva a loro per fare la farina e quindi il pane. Nonostante questo accorgimento mangiavamo pane nero e soldi per comprare altro pane non ce n’erano.
Oltre alla povertà, alla miseria, ricordo le. pulci, i pidocchi, le cimici... Quanti ce n’erano: nei capelli, sulle gambe.. .dei pizzichi straordinari! Il pavimento delle case era in terra battuta; si viveva nei “sottani , con gli ani­mali... Quante pulci; ci saltavano addosso! E le mosche... Quante mosche... Le scacciavamo con l’asciugamano.
A scuola a volte si andava, a volte no. Noi bambini dovevamo indossare il grembiule nero. Siccome i genitori non avevano soldi per comperare la stoffa e cucire il grembiule, erano costretti a prendere un lenzuolo matrimo­niale bianco del corredo, tagliarlo, tingerlo di nero e cucire il grembiule ai loro figli. E tanta gente era vestita di nero, in lutto per la morte di qualche caro, caduto in guerra. E tanti non hanno fatto ritorno.

Il coprifuoco

Una sera c’era il coprifuoco: ci rifugiammo nei “sottani” in mezzo agli animali. Una puzza... ma pur di salvarci la vita, una puzza insopportabile!
Pregammo e raccomandammo la nostra anima a Dio. A mezzanotte, un boato: era il ponte Varco che saltava. I muri delle case traballavano, i vetri delle finestre tintinnavano, sembrava che tutto il paese dovesse crollare.
Quando c’era il coprifuoco non dovevamo tenere accese le luci, ma la luce elettrica non tutti l’avevano.


La partenza per il fronte

Mi ricordo quando i giovani di Bonefro partivano per il fronte con i camion. In piazza li accompagnavano le mamme, i padri e piangevano; ave­vano il pensiero già rivolto al futuro: “Chissà se ci rivedremo...”.
I giovani partivano e per dimenticare, per non pensare a cosa andavano incontro, cantavano: “Faccetta nera, bell’abissina ...“.
Ricordo tutti i bambini come me a guardare questi giovanotti che partiva­no... Tanti di loro erano già sposati...

Il bollettino di guerra

A Bonefro c’era una sola radio. Il sindaco la faceva mettere in piazza ad alto volume e così sentivamo le ultime notizie dal fronte: ma erano sempre tristi: di morti, di distruzioni.

Conclusione

Vedete cari bambini, la guerra cosa porta?
Voi che siete la speranza del domani, mai la guerra!
Dovete essere sempre per la pace e ricordate che la pace la dobbiamo
vivere tra di noi: è un dono che si conquista:
dall’orgoglio nasce la guerra,
dalla guerra viene la povertà,
dalla povertà nasce l’umiltà,
dall’umiltà viene la pace!



IL CUORE DI UNA MADRE PIANGE SEMPRE...

Quattro comici con fotografie di ètà diverse, un vaso con fiori freschi, un cero sempre acceso, un centrino rosso: è l’altarino allestito per il suo bambi­no morto dalla signora Lina, una vecchietta di 94 anni ancora arzilla. Appena ci vede, le scende una lacrima:
“Aveva 11 anni come voi, Mario mio, core de mamme..”
Inizia cos’i il suo racconto e intanto piange:
“Era mezzogiorno, gli avevo dato pane e prosciutto... Aveva ancora il boccone in bocca... Glielo hanno dovuto tirare... Core de mamme.. »
Io ero uscita per fare un’ambasciata e lo avevo lasciato a casa assieme ai fratelli e alla sorellina di sei anni. Lo hanno chiamato i compagni per gioca­re:
“Dove vai? Mamma ha detto che non devi uscire!”, lo richiamò la sorel­lina. Ma lui è uscito cantando a squarciagola “Rosabella dimmi sì sì sì”. Ed è uscito insieme ad altri ragazzi che avevano trovato una scatoletta. La volevano aprire pensando che contenesse carne. Si erano radunati in tanti: uno era corso in casa a cercare un chiodo per aprirla e, poiché non ancora tornava lì, si è salvato. Gli altri miei figli sono usciti di casa per andare a cercarlo, quando hanno sentito un boato, udito in diverse strade del paese. Tornando a casa ho visto un gran trambusto: un signore col figlio in braccio correva: “Fai presto, corri, perché c’è anche tuo figlio!”, mi disse. Uno dei miei figli mi venne incontro correndo:
“Mamma, è morto Mario!”.
Core de mamme... Zia Lina piange e si asciuga gli occhi.
Subito me l’hanno riportato a casa dove è vissuto appena un quarto d’ora. Voleva parlarmi... Aveva tutta la faccia nera... La mano destra non l’aveva più... Nella sinistra c’erano solo due dita; si vedeva il cuore... Girava... Girava... E vomitava sangue. Core de mamme...
Cinque notti prima avevo sognato una chiesa, simile alla chiesetta di San Nicola, una fila lunga di lettini bianchi, allineati e, avanti avanti, un lettino coperto con un lenzuolo mio.
La notte prima avevo sognato una signora che apriva il mio comò e pren­deva una sottoveste: “Dopo prendi questa...”, mi diceva e quel vestito gli ho messo nella bara. Mio marito era in campagna, a mietere, era estate, l’otto luglio; era seduto per terra e mangiava; ha sentito un boato e la bottiglia del vino posta vici­no a lui si è rovesciata. Lo mandai a chiamare: è venuto di corsa a casa e lo ha trovato già tutto vestito nella bara. Core de mamme...Il falegname ha preparato la bara: “Pagatemi solo i chiodi”; il calzolaio:
“Le scarpe me le pagate a prezzo di costo”.
Core de mamme...
Non mi ricordo come si è svolto il funerale. Io piangevo. Abbiamo voluto funerali separati: per ogni bambino doveva suonare la sua campana.
Uno è morto mentre il padre lo portava in braccio dal medico. Un altro è morto mentre lo stavano portando a Campobasso con una macchina che si è capovolta lungo il tragitto. Un altro ancora è morto la sera. Questo bambino, un giorno, per la strada, aveva trovato un fazzoletto bianco; la sua mamma lo aveva lavato e stirato: “Adesso te lo conservo, quando ti sposi lo metti nel taschino della giacca”. E quel giorno, prima di morire, chiedeva quel fazzo­letto alla mamma.
Mio figlio Mario aveva paura dei tedeschi: un giorno un tedesco aveva bussato alla nostra porta, lui si era impaurito e piangeva.
Core de mamme...
Quando usciva di scuola, eseguiva svelto svelto i compiti e andava in bottega ad imparare il mestiere. Diceva sempre con i fratelli: “Oggi sono passati i tedeschi con gli aerei. Se vedete una penna per terra non la dovete raccogliere: quella è una bomba”.
Due anni prima aveva avuto la pleurite e lo avevamo portato ad Arco di

Trento per farlo guarire bene. È questo qui nella fotografia, sta pregando in chiesa insieme ad altri bambini.
Un medico di Arco voleva tenerlo con sé: “Ti darò tutti i miei soldi”. Mio marito andò immediatamente a riprenderlo. Su quella chiesa è stata lanciata una bomba: gli altri bambini sono morti. Era destino che morisse anche Mario mio.
Ero incinta di sei mesi quando è accaduto il triste fatto. Al neonato abbiamo dato il nome del fratello morto: Mario.
“Core de mamme...”.


Da “LE FAMIGLIE E I DETTI POPOLARI DI BONEFRO”
di Michele Colabella

10. LE VITTIME CIVILI (1943-1944)

Era verso il mezzogiorno dell’otto luglio del 1944. Mario Iacurti, Mario Ricciardelli, Nicolino Pettigrosso, Michelino Eremita e Giovanni Di Staola, tutti ragazzi dagli 8 agli 11 anni, giocavano con delle bocce di pietra nello spiazzale che si trova sotto il fontanino di via Piazza Grande. Nelle vicinan­ze vi era una specie di orto in una casa diroccata, pieno di ortiche e di altre erbacce, dove la gente buttava le immondizie o si sedeva sul muretto rima­sto in piedi.
A un certo punto Nicolino Pettigrosso propose: “Andiamo a cercare nell’orto la palla che ha smarrito mio fratello Ferdinando: è una palla che salta e ci si può giocare meglio”. Gli altri compagni dapprima lo presero in giro:
“Che cos’è questa palla che salta?”, ma poi sotto le sue insistenze si fecero convincere.
Mentre il gruppetto si incamminava verso il luogo indicato, Giovanni Di Staola disse: “Vado prima a prendere il pane, ché ho fame”; Michelino Ere­mita si associò: “Anch’io ho fame”; quindi tutti e due andarono per un mo­mento nelle loro case, nelle immediate vicinanze. Nel frattempo gli altri tre ragazzi andarono alla ricerca della palla; trovarono invece uno strano arnese (una bomba a mano): lo presero e lo portarono vicino al “sottano” del Pettigrosso. Questi salì subito in casa sua a prendere martello e chiodi, per­ché suo padre Raffaele faceva il calzolaio. Un po’ alla volta si aggiunsero alla comitiva, fermandosi a curiosare, Michele Alfieri e Tito (Attilio) Iacurti; anche Erminio Sciuvo si avvicinò, ma, avvertendo che c’era qualco­sa di pericoloso, si allontanò subito. Intanto era ritornato Michelino Eremita, con un pezzo di ^schenate (focaccia), mentre il Di Staola tardava a raggiungerli.
I ragazzi cominciarono a battere sull’ordigno, per smontarlo e conoscere il suo meccanismo interno, finché il gioco non si trasformò in tragedia: la valvola di sicurezza, colpita, fece scoppiare la bomba che dilaniò tutti i componenti della comitiva, tranne Giovanni Di Staola che si trovava ancora sulla curva di via Piazza Grande. Uno dei ragazzi, tutto nero nel suo corpo magrolino, fuggì gridando a tutta velocità, con i vestiti in fiamme; gli altri rimasero stesi per terra. Accorse subito la gente del vicinato per soccorrere i ragazzi e raccogliere i loro corpi martoriati. Alla fine, purtroppo, perirono atrocemente Mario Iacurti, il cugino Attilio, Mario Ricciardelli e Nicolino Pettigrosso, lasciando nella più profonda costernazione i loro familiari e tutti i paesani. (Referente: Giovanni Di Staola (1936), emigrato).
Altri quattro cittadini bonefrani caddero vittime dello scoppio di ordigni:
Vincenzo Cicoria (1908-1943), Pardo Antonio Perrotta (1931 - 1944), Nicola Ruccolo (1926-1943) e Luigi Santoianni (1872-1944).

LE VITTIME CIVILI

Iacurti Mario di Vincenzo e di Fantetti Santa nato il 12 aprile 1935 a Bonefro.
Deceduto a Bonefro, l’8 luglio 1944. Ferito mortal­mente dallo scoppio di una bomba a mano militare, che egli, insieme ad altri cinque ragazzi, “stava pestando” con pietra in mezzo alla via, nei pressi dell’angolo sud-est del palazzo dei signori Agostinelli, in via Piazza Grande.
(Registro dei Defuiui della Chiesa Parrocchiale “Santa Maria delle Rose” di Bonefro, atto n. 55 -anno 1944).

Ricciardelli Mario di Francesco e di Giannotti Carolina nato il 26 aprile 1933 a Bonefro.
Deceduto a Bonefro l’8 luglio 1994, uni­tamente a Iacurti mario di Vincenzo, Lacurti Tito Minnito di Giuseppe e Pettigrosso Nicolino di Raffaele, a segui­to dello scoppio di una bomba a mano militare.
(Registro dei Defunti della Chiesa Parrocchiale” Santa Maria delle Rose” atto n. 56- anno 1944’

Iacurti Tito Minnito di Giuseppe e di Spada Maria, nato 1’8 gennaio 1936 a Bonefro.
Deceduto a Bonefro, l’8 luglio 1944, uni­tamente a Iacurti Mario di Vincenzo, Pettigrosso Nicolino di Raffaele e Ricciardelli Mario di Francesco, a seguito dello scoppio di una bomba a mano mili­tare.
(Registro dei Defunti della Chiesa Parrocchiale “Santa Maria delle Rose” di Bonefro atto n. 57- anno 1944).
Pettigrosso Nicolino di Raffaele e di Picchione Maria Costanza, nato il 10 marzo 1936 a Bonefro.
Deceduto a Bonefro l’8 luglio 1944, unita­mente a Iacurti Mario di Vincenzo, Iacurti Tito Minnito di Giuseppe e Ricciardelli Mario di Francesco, a seguito dello scop­pio di una bomba a mano militare.
(Registro dei Defunti della Chiesa Parrocchiale “Santa Maria delle Rose” di Bonefro atto n. 58 - anno 1944).

UN BAMBINO CAPO-FAMIGLIA
Avevo dieci anni. Quella mattina ci siamo alzati presto e siamo andati in campagna, io, mio padre e mio zio.
In campagna ci siamo separati: io e mio zio siamo rimasti in un appezza­mento e mio padre è andato in un altro per controllare se c’erano gli aratri o se li avevano rubati. Lì è successo il fatto.
Io e mio zio, non vedendolo tornare, abbiamo pensato che fosse tornato a casa a Bonefro, e siamo tornati anche noi in paese. Ma a casa non c’era. Quindi ci siamo rimessi in cammino verso la campagna, per cercarlo. Strada facendo abbiamo incontrato un signore: “Lì c’è un morto!”. “Chi è?”. “Non lo conosco, è nella masseria del Magnacascio”. Siamo andati di corsa. Appena arrivati, mio zio ha capito che si trattava del fratello, cioè di mio padre e non mi ha fatto avvicinare. Siamo tornati subito a casa per dare la notizia a mia madre, ma lei, non vedendolo tornare aveva già pensato al peggio. Piangeva e si disperava:
“Che guaio ho avuto! Si è salvato non andando in guerra, ma è morto ugualmente a causa della guerra”.
Il peso della famiglia, le responsabilità sono ricadute su mia madre e su di me che ero il primogenito. Sono dovuto andare a lavorare con i miei zii (i terreni li lavoravamo in società). Non sono più andato a scuola. Il direttore mi ha fatto chiamare più volte, sollecitato dal maestro, affinché riprendessi lo studio.
Mi hanno pregato di frequentare la sesta classe, ma ho dovuto fermarmi alla quinta. All’età di dieci anni sono diventato adulto: ero il capo-famiglia ormai, ed avevo le responsabilità di un padre di famiglia.


CICORIA Vincenzo di Giuseppe e di Colombo Lucia nato il 24 gennaio 1908 a Bonefro.
Morto in agro di Colletorto (CB), località “Masseria del Magnacascio , in prossimità della strada rotabile, a seguito di esplosione di una mina lasciata dalle truppe tedesche in ritirata.
Il corpo, ridotto in brandelli, è stato, poi, trasportato a Bonefro e seppel­lito in quel Cimitero.
Fatto avvenuto l’il ottobre 1943.
(Registro dei Defunti della Chiesa Parrocchiale “Santa Maria delle Rose” di Bonefro, atto n. 89 - anno 1944 - Anagrafe n. 572).


UN LUNGO CALVARIO

Mio marito partì per la guerra nel 1939. Ci eravamo sposati nel 1937:
siamo stati insieme solo due anni, ma mai da soli, senza poter fare mai un discorso tutto nostro: io non so come vive una coppia di sposi. A casa rimanemmo sette femmine: io di 25 anni, le mie figlie, mia suo­cera, la suocera di mia suocera, due cognate (le sorelle di mio marito) e un uomo anziano (mio suocero). Mi faceva impressione: sette donne e un uomo solo che aveva sofferto lavorando duramente per 18 anni in America. Le mie figlie le ha cresciute la bisnonna; io e mia suocera, come due gemelle, anda­vano tutti i giorni in campagna. Abbiamo dovuto rimboccarci le maniche ed eseguire lavori maschili: dal grano al granone, dal vigneto all’oliveto:
tutte le operazioni colturali, un po’ di tutto insomma, mi mancava solo di adoperare l’aratro!
Un giorno la bisnonna si arrabbiò: non ce la faceva più da sola con due bimbe piccole, soprattutto con l’ultima, cagionevole di salute: “Questa crea­tura ha una mamma; la mamma deve rimanere a casa a curarla, altrimenti muore nelle mie mani”. Economicamente non stavamo male, avevamo alcu­ni ettari di terreno, ma mi mancava mio marito. Ricevevo il sussidio dallo Stato, ma il medico bisognava pagano, così pure le medicine.
Tanta gente doveva prendere le lenzuola del corredo, tagliarle, tingerle con il mallo delle noci e cucire i pantaloncini ai figli. Compravamo la lana delle pecore, sferruzzavamo le magliette e gliele facevamo indossare. Una volta comperammo il cotone e facemmo le calze: si mantenevano in piedi diritte da sole, tanto era doppio il cotone. Ho comperato gli scarponcini alla mia seconda figlia, ma non assunsero mai la forma del piede, perché troppo dure.
Pasqua e Natale, quando mio marito era in guerra, li trascorrevamo come tutti gli altri giorni: mai un dolce, mai un piatto diverso. La corrispondenza tra me e mio marito era abbastanza regolare, ma poi, per un certo periodo, non ricevetti più notizie. Eravamo proprio nel pieno della guerra e lui era in ospedale ad Arco di Trento. Mio fratello, preoccupato per la mancanza di notizie, fece un appello via radio, da Bari. Una signora che ascoltò la noti­zia, scrisse una cartolina e la inviò a mio marito ad Arco. Quando tornò dall' ospedale, verso la fine di febbraio del ‘46, presentò la documentazione necessaria per ottenere la pensione. Gli diedero il libretto di pensione come grande invalido, ma i soldi cominciò a riscuoterli nel ‘49. Lui morì, nel ‘52, all’età di 38 anni; io ne avevo 36, le nostre figlie 14 e 12.
I medici giovani erano al fronte e qui esercitavano la professione solo medici anziani; la penicillina ce la facemmo spedire dall’America, però era troppo tardi. Lui aveva capito che sarebbe morto e diceva: “Vorrei fare una bara sola con tutti e quattro dentro. Se avessi saputo che sarei morto, non mi sposavo” e questa frase la ripeteva continuamente. La malattia è durata quasi dieci anni: dall’ottobre del ‘42 all’aprile del ‘52, di cui, Otto anni di ospedale, sempre lontano da noi: è stato un calvario!


IL RACCONTO DELLA POVERTÀ

Era il 1942. Io avevo otto anni, quando mio padre partì, perché richiama­to. Quel giorno mi ero attaccato ai suoi pantaloni; non volevo che partisse, ero bambino ed avevo paura di perderlo. Fu mandato in Iugoslavia. Di tanto in tanto ci scriveva qualche lettera. L’ 8 settembre del ‘43, mio padre era ancora vivo e in casa sapevamo che stava in Iugoslavia. Dopo quella data non abbiamo avuto più notizie, niente. -Sarà morto? Sarà vivo? Dove sarà?-pensavamo noi a casa.
Mio fratello aveva solo due anni e non se lo ricorda per niente; io, invece, me lo ricordo perfettamente.
Dal ‘42 al ‘43 è venuto qualche volta a casa in licenza: un permesso di sole 24 ore.
Quella sera che doveva ripartire, piangeva come un ragazzo, non voleva proprio andare: sapeva la situazione politica. Questo è successo agli inizi del ‘43; fino a settembre abbiamo avuto qualche lettera, ma dopo l’armi sti­zio, niente; abbiamo perso ogni contatto; sapevamo solo che stava in Iugoslavia. Alla fine si diceva che era disperso: non si trovava né vivo, né morto. Noi non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione scritta né allora, né dopo.
Con lui c’era un commilitone di Montorio e stavano sempre insieme. Quando è tornato dalla guerra, questo suo compagno ci ha comunicato che mio padre era stato ucciso.
Mia madre piangeva dalla disperazione.
A casa vivevamo nella miseria più nera: non avevamo niente.
La sera mia madre cuoceva la pizza di granone e quella che avanzava ce
la scaldava la mattina dopo e a colazione, quindi, mangiavo “ ‘a pizze r’cotte” e andavo a scuola. Quando tornavo a mezzogiorno, di nuovo pizza: di pane non ce n era; il pane lo avevamo con la tessera, ma non c’era proprio il pane!
Il granone, mia madre, lo coltivava” ‘a parte”; mia madre lavorava nei campi come un uomo, tutti i giorni. Appena sposati, mio padre aveva impiantato un piccolo vigneto e mia madre andava tutti i giorni là dove col­tivava anche fagioli, patate, pomodori.
I vestiti? Tenevo una misera giacchettina, ma senza scarpe e magliette leggere: avevo sempre freddo. Mi avevano fatto un paio di zoccoli di legno alti alti perché non si dovevano consumare: dovevano durare a lungo! Quegli zoccoletti mi facevano male alle caviglie: mi toccavano i malleoli e mi facevano uscire il sangue. Mia madre ripeteva continuamente una frase e la ripeteva soprattutto in prossimità di feste, ricorrenze... Più era festa e più non accendeva il fuoco e più non si mangiava: “Qualche giorno mi ammaz­zo; qualche giorno mi ammazzo!”. “Ma’, tate è morte e vuoi morire pure tu? E noi due come dobbiamo fare? Chi ci cura?” Da allora non pronunciò più questa frase, anzi, a Pasqua e a Natale cominciò a farci qualche dolce tipico e i ciùf’le con la carne di gallina che allevava lei stessa.
Mio fratello l’ho cresciuto io. La mattina mi alzavo, mi vestivo, lo accu­divo (mia madre a quell’ora era già andata in campagna), lo lasciavo da qualche vicina di casa e me ne andavo a scuola. I miei nonni paterni erano morti e non abbiamo avuto aiuti di nessun genere da nessuno, né economi­camente, né moralmente.
Ho finito la quinta elementare e sono andato a “garzone” a pascolare le pecore. Il padrone non mi pagava; qualche volta mi dava” u pane r’secche e se non ubbidivo, erano schiaffi. Quando arrivava una festa regalava qual­che pezzo di ricotta o di formaggio a mia madre.
Io ho fatto la prima comunione, ma non mi ricordo niente: né dove, né come, né quando, né il vestito.
Mia madre vendeva 1 uovo o 2 e comperava il pacchetto del sale; vende­va i uovo e comperava la scatoletta dei fiammiferi... Spesso andavamo nel bosco a tagliare un po’ di legna per il fuoco: ma era come se la rubassimo; tagliavo io la legna con l’accetta. Andavamo anche a raccogliere le spighe di grano per poter avere un po’ di farina.
La mia casa era una stanza sola, più piccola di quest’aula: c’erano il letto matrimoniale dove dormivamo tutti e tre, il comò, la madia per il pane e la pizza, il camino, le pentole appese alle pareti, u masciunare” con sette-otto galline vicino alla porta, uno stipo a muro con i piatti, il pavimento tutto malandato tanto che i mattoni si muovevano sotto i piedi.


Una volta entrò un gatto e non voleva uscire. Andò a sbattere vicino ai piatti, li fece cadere e si ruppero. Mia madre si voleva uccidere per quei piatti rotti! Ho cominciato a vedere qualche centesimo verso il ‘47 - ‘48: proveniva dal sussidio offerto dallo Stato agli orfani di guerra, ma per averlo che cosa ci è voluto, la mano del Padreterno! Poi non feci più il garzone, ma andai a lavorare “a giornata” nei campi:
zappavo la vigna dalla mattina alla sera per 500 lire al giorno. Andai sulla trebbiatrice: 800 lire al giorno, ma dovevo lavorare notte e giorno. I soldi guadagnati mia madre me li metteva da parte: nel comò, sempre chiuso a chiave e la chiave la teneva ben stretta in tasca e se la portava sempre dietro. Nel 1950 si viveva molto meglio. Nel ‘60 emigrai in Svizzera. Nel ‘74 ho avuto questo posto di bidello, perché orfano di guerra. Ora non sono ricco, ma non sono più povero.

RICORDO INDELEBILE

Avevo dieci anni. Mamma mi accompagnò a Larino per fare una foto da mandare a Roma, al Comitato degli Orfani di Guerra

Il Comitato, a sua volta, spediva le foto ricevute in America. Qui ogni ragazzo/a, tramite la foto, veniva scelto da una madrina.
Era febbraio e faceva un freddo tremendo. Non avevo cappotto, ma solo una sciarpa che tolsi al momento del flash. Indossavo un paio di calze dop­pie che mamma aveva sferruzzato, con la lana grigia avuta per mezzo della tessera, intorno al misero fuoco; calzavo un paio di scarpe con ” ‘i cendre” (le bullette). Trascorsi alcuni anni, mi venne in mano la foto. Presi le forbici e la tagliai a metà strappando in mille pezzi la parte inferiore, perché non volevo rivedere né le scarpe e né le calze; pensavo di cancellare quel ricordo Ottenni l’effetto contrario. Oggi, a distanza di 40 anni, ricordo nei minimi particolari quel triste episodio.
La madrina mi scriveva ogni mese una lettera in inglese che veniva tra­dotta a Roma in italiano. Ogni tanto mi spediva un pacco contenente scarpe, lenzuola, coperte... e una modesta somma di soldi. Era una gioia indescrivi­bile aprire il pacco! Quei soldi, sommati a quelli della mia pensione (100 lire al giorno) sono stati indispensabili a mia madre per affrontare le spese di collegio dove rimasi per sette anni per conseguire la maturità. Nei tristi anni della mia infanzia, i nonni paterni riversavano su di me tutto quell’affetto fischiare che avrebbero voluto dare alloro figlio, disperso in guerra (Russia) quando io avevo solo nove mesi.

STORIA DI UN ORFANELLO

Mio padre, classe 1910, è partito per la guerra nell’agosto del 1939, appena sei giorni dopo la morte di mia madre e non otto giorni dopo. Dico questo perché dopo otto giorni a Bonefro si usava e si usa ancora celebrare le messa di lutto e mio padre, purtroppo, non poté partecipare a questa fun­zione funebre.
È partito ed ha girato un po’ tutta l’Italia. Intanto io, figlio unico, sono rimasto con la mia nonna paterna, che ha dovuto sostituirsi al figlio e al marito che stava in America.
Io sono nato nel 1937, quindi avevo due anni e mezzo quando mio padre è partito.
Ho risentito all’inizio forse poco, poi man mano sempre di più, della mancanza di mio padre soprattutto per il fatto che mia nonna, per sopravvi­vere, doveva recarsi la mattina presto nei campi e tornava la sera tardi. Il lavoro dei campi era l’unica fonte di sostentamento.
Mio padre scriveva a mia nonna. All’inizio comunicava che stava abba­stanza bene; evidentemente ancora non andava al fronte. Ad un certo punto le notizie non furono più precise. Quando fu partito andò a Busto Arsizio; da qui passò al fronte nei Balcani. Fino all’8 settembre ‘43, mio padre scris­se e sapevamo dove stava. Dopo qualla data non abbiamo più avuto notizie. Ricevemmo l’ultima lettera dalla Iugoslavia il 15 marzo 1944. Le ultime notizie ci furono fornite da un suo commilitone di Montelongo, il quale, stando in prigionia ed essendo ferito, è stato rimpatriato. Egli ci ha raccon­tato che mio padre pure era ferito e stava in un ospedale da campo; un bel giorno i tedeschi arrivarono con un’autocolonna, presero tutti i prigionieri, la maggior parte dei quali era malata, e partirono. Da quel momento non si seppe più nessuna notizia di mio padre. Successivamente fu dichiarato disperso.
li termine “disperso” era causa di pianti continui da parte di mia nonna, disperata, che avrebbe voluto sapere la sorte toccata al figlio.
Nel 1976 mia nonna è morta. Quello che mi dispiace è che non abbia potuto sapere che fine avesse fatto il figlio: il corpo dove stava, se era morto; lei lo immaginava dappertutto, morto, vivo, chissà in quale posto...
Due anni dopo, nel 1978, per caso, ho richiesto al Distretto Militare di Campobasso la copia del foglio matricolare e con mia somma sorpresa ho letto che mio padre era morto in prigionia il 1° maggio 1944, a causa di malattia, ed era stato seppellito nel cimitero cattolico di Mitrovica, città della Iugoslavia, nella tomba n.15, luogo di eventi bellici anche ultimamen­te, per cui non ho avuto la possibilità di andare a visitare la tomba di mio padre.
Quello che ricordo in maniera particolare della mia situazione è il pianto continuo della nonna. Probabilmente non mi rendevo conto della motivazio­ne e quasi quel pianto mi dava fastidio.
Oggi mi rendo conto che aveva ragione a comportarsi così.
Quando mio padre è partito ha lasciato un vigneto e un frutteto, impian­tati da poco da lui stesso. Il rammarico di mio padre è stato quello di non aver potuto vedere fiorire gli alberi che aveva piantato, crescere la vigna che aveva impiantato. Mia nonna ha curato vigneto e frutteto come se fossero stati suo figlio, come se fossero l’unico legame col figlio e quindi l’unico modo per stare a contatto col figlio era quello di lavorare, guardare le piante crescere e produrre.Su di essi mio padre riponeva molta fiducia e su di essi pensava di creare il proprio futuro.
Io sentivo mia nonna parlare continuamente del figlio non solo in casa, ma anche fuori. Ogni qualvolta si incontrava con una persona non faceva altro che parlare della guerra, del figlio, dei mariti delle interlocutrici, delle preoccupazioni che ne derivavano.
Naturalmente le condizioni economiche erano disastrose; la nostra fortu­na era quella di possedere quei pochi terreni che lei lavorava e da cui traeva­mo il nostro sostentamento. Io rabbrividisco al pensiero che senza quei ter­reni sicuramente saremmo morti di fame, così come tanta altra gente. Ricordo il pane nero, ma non era in abbondanza; era pane nero fatto in casa e quel poco che c’era, doveva durare. Il giorno, quando si mangiava, biso­gnava “misurare” la quantità del pane, perché non era possibile mangiarne quanto ne volevi.
Chiunque ha vissuto durante la guerra ricorda la carestia del pane, ma anche i miseri vestiti che indossavamo, le case nelle quali vivevamo, le feste che trascorrevano fra pianti e non gioie, al pensiero dei poveri sol­dati che stavano in guerra e che sicuramente morivano pure di fame e non solo di stenti.
C’era miseria concreta e miseria psicologica, perché non si riusciva a scordarsi, sia pure per un attimo, della guerra e dei soldati che morivano. Continuamente arrivavano notizie di gente che moriva in battaglia; conti­nuamente c’era la preoccupazione che da un momento all’altro arrivassero notizie cattive. Tutti erano preoccupati per quello che poteva succedere il giorno dopo, un minuto dopo, un secondo dopo. Come orfano di guerra, e in particolare come orfano di entrambi i genito­ri, ricordo bene la situazione psicologica di mia nonna che probabilmente mi toccava, ma di cui non mi rendevo conto. Oggi mi rendo conto che la situazione era critica, era brutta anche per me e probabilmente i mezzi di allora erano diversi da quelli di oggi. Se i mezzi di oggi ci fossero stati pure allora, le mie reazioni di bambino, di ragazzo, di giovane non so come sarebbero state! Oggi mi rendo conto che ho vissuto male, soprattutto psico­logicamente. La mancanza dei genitori me la porto appresso e se non mi ha creato problemi, mi ha quanto meno condizionato e qualche volta ha deter­minato certi miei modi di pensare e di agire.
Mia nonna ebbe la pensione a 78 anni e la ebbe in seguito a decisione della Corte dei Conti cui ha dovuto ricorrere, poiché il Ministero del Tesoro aveva rigettato l’istanza, in quanto mia nonna disponeva di un ettaro e mezzo di terreno. Secondo il Ministero del Tesoro, secondo le leggi di allo­ra, questo ettaro e mezzo di terreno dava la possibilità a mia nonna di vive­re. Io ho avuto la pensione fino a 18 anni, poi non più...
Dio solo sa come si faceva a campare con quei pochi soldi di pensione che mi davano. Se non fosse stato per il fatto che mia nonna lavorava nei campi e che risparmiava conservando “in magazzino” tutto quello che il campo produceva, non avremmo tirato avanti. Naturalmente erano rinunce continue; dovevamo farci i conti sulle dita; non potevo ovviamente com­prarmi vestiti, non potevo comprarmi scarpe. Avevo 16 anni quando, in seguito alle mie continue pressioni, mia nonna si decise a farmi cucire dal sarto un cappotto che doveva durarmi per diversi anni e ricordo che il cap­potto era lunghissimo, mi arrivava alle scarpe, le maniche lunghissime e l’ho indossato per diversi anni.
Il cappotto doveva essere pesante e resistente e non potevo permettermi altro. Le scarpe, se capitava, qualcuno te le dava usate; i vestiti, appena dopo la guerra, venivano dall’America, quando si erano sbloccate le frontie­re; ci venivano regalati dai nostri emigrati in America. Questo ci permetteva

di vestirci più o meno bene. Il vestito che si strappava non veniva buttato, ma ricucito e rattoppato in casa e presentava tante “pezze” (toppe). Il ricordo che ho della guerra è terribile: la mia fanciullezza è stata vera­mente sacrificata, segnata. Ancora oggi risento della sofferenza, delle priva­zioni; ma le sofferenze erano più quelle morali che non le materiali. La povertà era moltissima, ma quella psicologica era veramente terribile e per me in maniera particolare. Per cui, oggi, non mi sentirei di raccontare una cosa come questa a un giovane, perché non mi crederebbe. Io auguro che veramente il mondo cambi, che il mondo vada meglio, che non ci siano mai più guerre, perché le guerre sono maledizioni, disgrazie, morti; sono tutto!

P.s.
Mentre la presente monografia è in corso di stampa, giunge notizia, all’ intervistato, della probabile sistemazione dei Resti mortali del proprio familiare Caduto, nel Sacrario dei Caduti d’ oltremare di Bari.

LE RAZZIE DEI TEDESCHI

La requisizione di una casa
Di buon mattino, verso le quattro, sentimmo bussare alla porta: “Ma chi è a quest’ora?”, si chiese mia madre e chiamò subito mio padre,
“Sono i tedeschi!”. Non volevano aprire, ma i tedeschi sfasciarono la porta ed entrarono con un lume in mano. Girarono tutta la casa; entrarono perfino nella camera, dove io, mia sorella e la nonna malata dormivamo. Poi scesero giù e dissero che il Comando tedesco si sarebbe stabilito lì, in casa nostra. Precisarono che noi dovevamo andare via.
Il giorno stesso uscimmo e rimasero in casa mio padre e mia nonnamalata. Io, mia sorella e mia madre, la notte, andavamo a dormire a casa di mia zia, che dovette ospitare anche altri parenti “sloggiati”. Il giorno, inve­ce, stavamo a casa nostra, al piano superiore; al piano inferiore, tre camere con tutti nostri mobili, si erano sistemati i tedeschi. La mattina, quando tornavamo a casa nostra, mia sorella, più piccola di me, scappava su per le scale, perché aveva paura dei tedeschi: loro ridevano.
Una notte vennero altri soldati che si ubriacarono e ruppero parecchie cose: radio, vetro, intonaco...; ci rubarono perfino dei soldi. Non ci disturba­vano mai, anzi erano abbastanza bravi con noi. Però, in quel periodo togliemmo di dosso orecchini e catenine; nascondemmo soldi e libretti postali: papà li mise in un vaso e li murò, Buona parte del corredo di casa e degli indumenti migliori furono portati a casa di mio zio muratore, dove furono nascosti in una botola, successivamente pavimentata.
Il giorno prima di partire, i tedeschi posarono nell’ingresso tante scatole con munizioni. “Bum!”, ci dissero e noi capimmo che era materiale esplosi­vo. Sostarono a casa nostra otto giorni, poi andarono via.

Una grande paura

Un giorno uscii: dovevo andare a casa di una zia che abitava lontano, all’altra estremità del paese. Per la strada sentivo dei gran colpi: sssgsc, sssgsc, sssgsc...; erano le bombe che lanciavano dal Cerro del Ruccolo. Mi sembrava che tutte le case tremassero; presi una tale paura...
Mio padre andava in campagna con due muli. Seppe delle razzie dei tedeschi e un giorno non tornò a casa, ma andò a nascondere i muli nel bosco del Colle Difesa. I tedeschi lo videro dalla piazza e cominciarono a sparargli (il Colle, infatti, è situato proprio di fronte alla piazza). “Cambia strada, cambia strada!”, gridava la gente dalla piazza. I tedeschi cominciarono a corrergli appresso, a sparargli; ma lui correva trascinandosi i muli dietro. Non lo trovarono perché non conoscevano quella strada di campagna, né la zona. Mio padre rimase nascosto nel bosco, con i muli, per due o tre giorni.

Giorni di terrore

Avevo 21 anni nel ‘43.
I tedeschi stavano venendo dalla Puglia nel Molise; lungo la strada si fermarono a Verticchio, nella nostra masseria e vi si installarono con prepotenza. Noi dovemmo sgomberare la masseria: tutti gli animali li caricammo sui carretti e li portammo a Bonefro nella masseria di alcuni nostri parenti. Mentre caricavano gli animali, uno dei nostri cavalli fu ferito, cadde a terra e non si poté rialzare. Mio padre decise quindi di rimanere a Verticchio fino a quando il cavallo fosse guarito. Furono giorni di terrore: sempre con la pistola puntata sul viso. Buoi, maiali, cavalli e muli li portammo in paese; le galline rimasero lì e i tede­schi ne mangiarono a volontà, così come mangiarono uova, salsiccia, olio.
In quella settimana, mio padre, stanco di stare da solo, andò nella Masseria Rossa, a parlare con altri coloni compaesani. All’improvviso arrivò un tedesco, li fece entrare in un baraccone, li chiuse dentro e andò via. E lì rimasero rinchiusi fino a sera tardi.

La contribuzione obbligatoria del pane

Eravamo nel forno di zia Cristina. Avevamo appena sfornato il pane, quello della prima infornata, quando arrivò il commissario prefettizio accompagnato da un soldato tedesco, altissimo:
“Cr’sti’, oggi il pane se lo devono prendere i tedeschi. Forza, dai il pane, altrimenti succede qualche guaio”.
“Per l’amor di Dio”, intervenne mia madre. “Noi mangiamo con la tesse­ra! Chi me la dà altra farina per impastare di nuovo?”.
Neanche una briciola lasciarono: 21 pagnotte di pane, tutte via.
Allora il commissario prefettizio ordinò a zia Cristina che clienti della seconda infornata lasciassero per noi una pagnotta di pane ciascuno.
Io e Maria, la figlia di zia Cristina, mettemmo” ‘a m’selle” piena di pagnotte di pane sul capo e la portammo nel camion da cucina dei tedeschi posto in piazza. Entrò nel camion prima Maria; io restai fuori. Poi entrai io, ma rimasi là dentro molto tempo: due giovanotti, uno avanti e uno dietro, mi tolsero ‘a m’selle dal capo, la posarono e mi fecero cenno di avvolgere nelle tovaglie e di sistemare le pagnotte in una capierìte cassapanca. Impiegai un po’ di tempo. Tutta la gente fuori cominciava a mormorare:
“Madonna, che guaio; Madonna, che guaio!”. Don Corrado esclamò:
“Silenzio! Silenzio!, che sta solo sistemando il pane!”. Erano tutti preoccu­pati, perché Maria aveva impiegato meno tempo. Quando finii, si avvicinò un soldato e mi regalò una tavoletta di cioccolata: ch l’aveva mai vista! Uscita fuori, la mia amica reclamò: “Hai visto, tu hai avuto la cioccolata e io no”. “Non ti preoccupare, la farò assaggiare anche a te”,

Divieto di mangiare

Tra le varie abitazioni di privati cittadini, i tedeschi occuparono anche la casa del signor Nicola Silvestri, commerciante in cereali, legumi e frutta secca. Durante l’occupazione, i tedeschi imposero al proprietario di schiacciare e sgusciare per loro noci e mandorle. Egli, seduto sulla sedia, doveva fischiare in continuazione mentre li rompeva, per evitare che ne mangiasse qualcuna.

Il sequestro dei pullman

Nel 1943, prima che arrivassero i tedeschi a Bonefro, mio padre nascose i due pullman: uno in contrada S.Vito e un altro a Monte Ferrone, coprendo-li ben bene con frasche e rami di alberi, per evitare che il nemico li rubasse.
Notte e giorno li sorvegliava, senza tornare a casa.
I tedeschi, accompagnati da due persone, si recarono in casa di mio zio, chiedendo i pullman. Non avendoli ricevuti, misero delle mine nel mulino, sempre di proprietà dei Fantetti, situato nel centro abitato. Le mine sareb­bero state accese in qualsiasi momento, dalla strada adiacente, e avrebbero fatto saltare in aria anche l’abitazione sovrastante, se mio padre non avesse consegnato i due pullman. I tedeschi riuscirono nel loro intento: mio padre, minacciato di morte, consegnò loro i pullman. Le mine furono disinnescate da mio padre stesso, il quale entrò nel mulino attraverso una porticina interna.
I pullman costituivano un servizio per tutti i cittadini che potevano rag­giungere lo scalo ferroviario e quindi, mediante il treno, Campobasso e Larino. Il disagio fu avvertito da tutti e soprattutto dal podestà - prima, sin­daco poi -, Luigi Maucieri, che nel periodo del suo mandato si recava spes­so a Campobasso, in Prefettura per questioni amministrative. In mancanza del servizio, egli era costretto a raggiungere lo scalo, anche durante l’inver­no, col carretto.
Per venire incontro alle esigenze dei bonefrani, mio padre costruì un rudimentale mezzo di trasporto utilizzando il motore di una macchina ingle­se, simile a un’ambulanza,e due relitti di guerra cedutigli dagli addetti alla ferrovia, in seguito all’interruzione del ponte “Tredici archi”, presso Campolieto.
Il servizio fu ripristinato verso il ‘45- ‘46, quando venne ritrovato presso Rimini solo uno dei due pullman e anche in cattivo stato.

Lillino e Cardillo

Mio padre aveva due cavalli, Lillino e Cardillo, entrambi giovani e dal mantello baio e un carretto col quale trasportava i carboni.
Un giorno arrivarono a casa due tedeschi; la porta era sbarrata con una



grossa stanga. Non potendola aprire, i tedeschi entrarono dal lucernario pro­tetto dall’inferriata divelta da loro stessi.
Appena li vide mio padre subito capì: “Vuoi vedere che adesso mi pren­dono i cavalli?” Voleva fermarli, ma non poté. La strada, via XX Settembre, in un attimo si riempì di gente: tutti erano curiosi di vedere cosa succedeva. Fu allora che uno dei due, per aprirsi un varco tra la folla, sparò un colpo di pistola in aria.
Mia madre, che stava in casa, sentendo quel colpo si impaurì: pensava che avessero sparato al marito.
Quasi certamente questa paura le “avvelenò” il latte nel seno causando la morte dei gemelli di sei mesi.
Intanto i tedeschi, che erano venuti a conoscenza dei nostri cavalli dopo aver consultato lo schedario dei muli sul Comune, li portarono via e ce li restituirono una decina di giorni dopo.

Una giornata “prigioniero” dei tedeschi

Un giorno del mese di settembre del ‘43, di primo mattino, a S.Vito, ven­nero due o tre tedeschi. Io avevo 16 anni, ero curioso di vedere. Chiamarono me, mio cugino di 21 anni ed altri cinque o sei giovanotti con un cenno del dito. Avevano una specie di lenzuolo, lo riempirono di paglia, lo legarono e ci obbligarono a portarlo sulle spalle fin sul colle Miozzi. Da qui fino alla contrada Macchiapuzzo c’era una lunga fila di tedeschi. Arrivammo tutti sudati per la gran fatica. I tedeschi presero una zappa, fecero una traccia sul terreno ed obbligarono me e mio cugino a scavare. Egli, pur essendo più grande di me, aveva tanta paura, ma io no: a 16 anni non si ha paura di nien­te, anzi ero felice e contento di stare in mezzo ai tedeschi.
Abbiamo dovuto scavare, per tutto il giorno, diverse trincee della lun­ghezza pari a due di questi banchi di scuola, un po’ più strette e profonde fino al ginocchio.
Erano verso le Otto del mattino; era ora di colazione. I tedeschi presero tante pagnotte di pane che avevano sequestrato nel forno di zia Cristina, le affettarono e ci spalmarono il burro. E così ho conosciuto il burro. Io li guardavo e mi chiedevo: Ma che cos’è quella roba? Mi era venuta una voglia, una voglia tale di assaggiarla, che non ho potuto fare a meno di chie­dergliela; naturalmente glielo chiesi a cenni. Diedero una bella fetta di pane a me e una a mia cugino che continuava a tremare di paura.
Com’era buono quel burro! Com’era saporito!
Poi cominciarono a fumare: certi pacchetti di sigarette! Sopra vi era scritto CIGARETTES. Subito dissi: “Io, cigarettes” e lo dissi pronunciando la parola cos’i com’era scritta. I tedeschi si misero a ridere e mi hanno rega­lato una bella scatola di sigarette: che contentezza!
La sera, poi, ci riaccompagnarono a casa.
Dopo due o tre giorni, tutti noi abitanti di San Vito (eravamo circa 80 persone), fummo deportati a Provvidenti. Fra le persone c’era una signora di Pescara incinta che solo per miracolo non partorì per la strada, fece appe­na in tempo ad arrivare a Provvidenti dove partorì. Restammo lì per tre gior­ni, poi tornammo nelle nostre case. Ci avevano allontanati da 5. Vito, perché avevano minato tutta la zona circostante.
Qualche giorno prima avevano derubato viveri in tutte le case di 5. Vito:
vino (una botte di 2-300 litri di vino cotto), maiali, polli...

Gli ostaggi

I tedeschi presero come ostaggi 6-7 giovani, tra cui mio fratello, e li por­tarono via. Mio fratello riuscì a sfuggire loro e tornò a casa, la notte verso le ore due, assieme a qualche altro amico; tre giovani, invece, rimasero nelle loro mani.
Don Corrado, intanto, aveva avvisato i familiari dei sequestrati, mediante il bando, di portarsi in piazza, l’indomani mattina, per prendere decisioni in merito. Alle ore 11 della domenica, mentre la gente usciva dalla chiesa, il commissario prefettizio invitò la popolazione ad organizzarsi procurandosi dei fucili per andare a cercare quei giovani qualora non fossero stati rila­sciati entro il giorno dopo. Questo invito venne accolto da una bordata di fischi: cosa potevano fare i fucili contro i carri armati dei tedeschi?
Vedendo poi che alcuni giovani, nottetempo, erano tornati, si decise di aspettare prima di intraprendere l’iniziativa. I tre giovani che erano ancora nelle mani dei tedeschi, tornarono il martedì successivo.


DURANTE LA PERMANENZA DEGLI ALLEATI...

“Schugnizzi” bonefrani in azione

Facevo parte di una banda di Otto ragazzi tutti della stessa età: 11-12 anni. Quando arrivarono gli alleati si sistemarono nell’orfanotrofio Maucieri. Ci offrivano biscottini, cioccolatini...; noi eravamo le loro mascot­te. Lucidavamo i loro stivaloni, aiutavamo a sistemare la roba sui camion... Ci volevano bene.
Quando sistemavano le loro cose, noi guardavamo con attenzione, vede­vamo dove mettevano gli zaini: e al momento opportuno facevamo sparire qualcosa.
Avevano le jeep; dietro c’erano la piccozza e il badile; noi li rubavamo e li portavamo ai contadini che ci davano un po’ di pane, così potevamo sfa­marci. Spesso facevamo lo “scasso” delle loro macchine: il ricettatore ci com­missionava qualche pezzo e noi provvedevamo. Rubavamo loro gli stivalo­ni; prendevamo gli zaini, i vestiti, la roba da mangiare... In cambio riceveva­mo una pagnotta di pane, un po’ di salsiccia, la farina... Gli alleati ci davano i soldi per comperare le uova. Noi prendevamo i soldi, ma non gli portavamo le uova. Ciò era possibile in quanto ogni tre giorni c’era il cambio della truppa: una arrivava e l’altra partiva. Così noi avevamo a che fare sempre con facce nuove; appena sapevamo che la truppa era partita, venivamo fuori e... I soldi che ci davano per comperare le uova li portavamo a casa e così ci arrangiavamo.

La galera

Io ho fatto quattro giorni di galera nelle carceri di Bonefro; il carcere era situato nell’ex Convento Santa Maria delle Grazie.
Un giorno in piazza arrivò una jeep e si fermò proprio vicino alla fontana dove c’era una ragazza intenta ad attingere l’acqua con la tina. La sentinel­la, armata di moschetto, si distrasse per guardare la ragazza. Noi sapevamo che sulla jeep c’erano le buste paga dei soldati, conservate in un armadietto ben chiuso col lucchetto. Approfittammo della sua distrazione: mentre lui guardava la ragazza, da dietro col “palenghine”, cercammo di aprire l’arma­dietto. Appena aperto, rotolò tutto a terra con grande fracasso. Il soldato si girò di scatto, ma noi scappammo via di corsa e non ci prese. La notte, verso le ore due, sentimmo bussare. Gli alleati, avendo riconosciuto uno di noi per via dei suoi capelli rossi, si recarono da un signore che conosceva l’inglese e si fecero dire chi era il ragazzo e dove abitava. Da lui risalirono a tutta la banda. Ci ritrovammo così tutti e Otto. Ci portarono in un locale dove ci rinchiusero dentro. Lì c’erano dei meloni: ad uno ad uno li spaccammo e li mangiammo: - chissà quando man­geremo un’altra volta... - pensavamo. La mattina dopo vennero a prelevarci e ci portarono in caserma. Ci tolsero i lacci delle scarpe, le bretelle, la cintu­ra dei pantaloni e ci rinchiusero in prigione. Era una stanza molto più picco­la di quest’aula, una cella piccolissima; in un angolo vi era un secchio dove poter fare i bisogni. Rimanemmo scioccati: ci trattavano da criminali. Il primo giorno non ci diedero nemmeno da mangiare; nei giorni succes­sivi ci portarono una scodella di minestra. Il carceriere, zio Luigi (così chia­mato affettuosamente da tutti noi bonefrani), aveva pietà di noi: “Non grida­te, adesso vi do una mela”. Il secondo giorno venne il maresciallo: “Se fate i nomi dei mandanti, dei ricettatori vi mandiamo a casa. Pensateci! “.
Parlammo tra di noi e decidemmo di rivelare quel nome. La mattina dopo vedemmo il ricettatore in manette: lui è entrato e noi siamo usciti. Il giorno successivo, col pullman, fu portato nelle carceri di Larino.

Una refurtiva inutilizzabile

Una sera capimmo che gli alleati, la mattina dopo, sarebbero partiti. Lucidammo per bene i loro stivaloni, li mettemmo negli zaini e sistemammo tutta la loro roba sui camion. Mentre caricavamo, pensavamo gia a quello che potevamo rubare. C’era il piantone; appena lui andò in cucina, salimmo sui camion, prendemmo alcuni zaini e li nascondemmo. La notte ne aprim­mo uno; rimanemmo sbalorditi nel vedere il contenuto: c’era tutto l’occor­rente per celebrare la messa; si trattava dello zaino del cappellano militare. Avevamo paura solo a toccarlo! Prendemmo lo zaino, e appena la sentinella non ci vide, lo buttammo davanti all’orfanotrofio.
Ho avuto un peso sullo stomaco per tutta la notte, tanto che mi confidai con mio fratello più grande il quale mi disse che avevamo fatto bene a ripor­tarlo indietro anche perché il suo contenuto non avrebbe trovato mercato.


IL CUORE GENEROSO DI UN BONEFRANO

Un “brutto rischio”

Era il mese di ottobre del 1943. Io avevo 12 anni.
I tedeschi avevano preso prigionieri due soldati inglesi che riuscirono a fuggire. Nella nostra campagna, in agro di 5. Giuliano di Puglia, videro mio nonno:“Aiuto, padre, aiutaci!”.
Mio nonno li nascose nella sua masseria: di giorno si nascondevano in mezzo alle ginestre, di notte dormivano dentro. Il nonno portava loro da mangiare cercando di non farsi vedere da nessuno.
Rimasero con noi per quindici giorni.
Per riconoscenza i due inglesi, una volta tornati al loro Paese, hanno scritto una lettera al nonno e successivamente gli hanno inviato anche un pacco. A distanza di anni sono venuti in Italia a trovarlo.


LA CAMPAGNA DEL BRONZO ALLA PATRIA

Il richiamo della campana

Eravamo quattro ragazze più o meno della stessa età; io avevo 17 anni. Quel giorno, era il 3 o 4 di settembre del ‘43, abbiamo capito che i solda­ti italiani dovevano prendere la nostra campana: il milite ignoto del monu­mento lo avevano già preso e spedito e stavano per prendere la campana della Chiesa Madre del peso di 18 quintali.
Ci siamo messe d’accordo e siamo salite sul campanile: la porta era sem­pre aperta, ma noi la sprangammo dall’interno e cominciammo a suonare la campana, prima che venisse tolta, per farne sentire il suono a tutta la popo­lazione.
Era tempo di guerra: tutta la gente in piazza: “Che cosa è successo?”, si chiedeva.
E noi suonavamo a distesa la campana.
Don Domenico, l’arciprete, subito accorse; vennero il commissario pre­fettizio, il maresciallo: tutti sotto al campanile e noi sopra a suonare con la porta chiusa.
Don Domenico ci chiamava: “Oh Dio, scendete giù, altrimenti andate in prigione! “.
Da sotto ci vedevano bene e avevano capito eh eravamo.
Abbiamo fatto suonare la campana fino a quando non ce la facevamo più, senza ascoltare le pressioni delle persone che ci invitavano a scendere. Poi abbiamo smesso e siamo scese giù, ma non avevamo il coraggio di apri­re la porta. Il maresciallo ci esortava:
“Aprite, altrimenti vi porto in prigione!”.
Finalmente ci decidemmo ad aprire.
“Perché avete suonato la campana?”.
“Perché voi nel pomeriggio la dovete portare via e noi volevamo far ascoltare, per l’ultima volta, il suo suono festoso così caro a tutta la popola­zione”.
“Ma lo sapete che è tempo di guerra? Vedete quanta gente è accorsa pen­sando che fosse successo qualcosa? Seguitemi!”.
Il commissario prefettizio, don Corrado De Curtis, già piccolo di statura, lo è diventato ancora di più: poverino! Nonostante ciò è intervenuto in nostro favore:
“Cosa vi è saltato in testa? Come dobbiamo fare se veramente vi mettono in prigione?”.
“Non fa niente, tanto, prima o poi, ci metteranno fuori”.
Nel pomeriggio hanno staccato la campana, l’hanno portata davanti alla chiesa e hanno cominciato a romperla: quelle martellate rispondevano nel cuore di tutti, presenti e non, poiché si sentivano anche a notevole distanza. Assistevamo impotenti, senza poter intervenire.., e che potevamo fare in confronto a chi aveva donato il proprio anello nuziale, gli orecchini, le pen­tole in rame? Potevamo solo guardare increduli...
E giù con quei martelli. La campana non c’era più, il suono morto, il nostro cuore a pezzi come i pezzi della campana. Ognuno di noi ne prende­va un pezzettino, una scheggia; ma nessuno si allontanava, rimanemmo lì inchiodati fino a quando non l’hanno demolita tutta.
Questo è successo il 3 o il 4 settembre, il giorno 8 arrivò la notizia del­l’armistizio; la campana non partì: ormai non serviva più.
Nei giorni successivi Don Domenico, nella sua omelia, ci invitò:
“Chiunque abbia un pezzo della campana è pregato di riportarlo, per poterla ricostruire”.
L’attuale campana è quella ricostruita con lo stesso bronzo, ma più leg­gera di circa un quintale, anche se della stessa grandezza.
Per noi non fu preso alcun provvedimento, grazie all’intercessione del parroco e del commissario prefettizio.
Il maresciallo, ogni qualvolta mi incontrava, mi ricordava:
“Tu devi ancora scontare un giorno di galera!”.


IL MONUMENTO ALLE VITTIME CIVILI

Il monumento alle vittime civili è stato eretto nel 1978, per ricordare i nostri paesani morti in seguito all’esplosione di mine disseminate dai tede­schi in diversi punti del territorio di Bonefro, oltre che nel centro abitato.
È formato da un blocco di marmo grigio, a forma di tronco di piramide, sormontato da una fiamma, in marmo bianco, che rappresenta una luce accesa a ricordo delle vittime uccise dalla brutale guerra. Originariamente, il blocco era una delle due parti terminali che sorreggevano la primitiva sta­tua in bronzo del milite ignoto ceduta al governo, in seguito alla campagna del bronzo alla Patria.
Su di un fianco c’è una lapide con i nomi dei quattro bambini e delle altre persone morte.
Il ceppo è situato alla sinistra del monumento grande in un recinto, rac­chiuso da balaustre, con piante e fiori.


IL CONTRIBUTO DEI BONEFRANI IN CIFRE


Caduti in combattimento N. 10 - Età media anni 27
Dispersi N. 14 - Età media anni 25
Morti in prigionia N. 12 - Età media anni 27
Morti per malattia N. 19 - Età media anni 43
Morti per cause accidentali N 1 - Età media anni 22
N 56 - Età media anni 31


Caduti facenti parte di Formazioni Partigiane: N. 5 -

Decorazioni ed Encomi.
— Medaglie d’oro -
— Medaglie d’argento 1
— Medaglie di bronzo 3
— Encomi solenni -
— Encomi semplici 1