Perrotta Antonio

BIOGRAFIA

1° parte: “Bonefro e le sue tradizioni”

Antonio Perrotta nasce a Bonefro (CB) il 30 luglio  1913 da genitori contadini, Celestino e Maria Nicola,  l’anno prima dello scoppio della grande guerra. 

Il padre Celestino, assieme ai fratelli, viene arruolato e inviato in trincea a combattere. 

Molte persone muoiono nei combattimenti e, soprattutto dopo il 1917  con la chiamata alle armi dei “ragazzi del 99”,  nei paesi rimangono solo i vecchi, le donne e i bambini.

Durante la guerra, il padre ha una licenza e ritorna a casa.  Il nonno  vuole fare una grande festa per il ritorno del primogenito, ma Celestino è contrario:

“  Gli Austriaci stanno preparando una grande offensiva.  Mio fratello Alessandro si trova proprio là.  Non possiamo festeggiare ora che lui è in pericolo!”

Mentre discutono su questo sentono bussare:  è Alessandro che ha avuto una licenza all’ultimo momento.  Così la gioia è completa.

Antonio (bambino), partecipa alla vita e alle feste del paese,  allora molto vitale.

Viene annunciata la liberazione di Fiume. Festeggia con gli altri, si veste in maniera strana e va in piazza conciato in quel modo:

- ‘Ndò  perché sei vestito accuscì ? –

- Hanno liberato Fiume –

- Quale fiume ? –

Non sa cosa dire, poi gli viene la risposta:

- Il fiume Po.

 

Finisce la guerra. 

Antonio vuole studiare:  non vuole fare il contadino.  E i genitori lo mandano a studiare…frequenta le scuole a Campobasso, ma non ci sono i soldi.

Il padre Celestino, allora, emigra in America e approda a New York dove, nel quartiere di New Russel c’è una comunità di bonefrani che ha fondato un circolo.  Lavora in quei luoghi e manda, come tutti, i soldi a casa.  Queste erano le famose rimesse degli emigranti che sanavano il bilancio in passivo dello stato.

 

Antonio adolescente, non è contento dell’attuale situazione;  i suoi genitori se ne accorgono:

“Io ero tempestoso e mai contento

infastidivo tutti quanti e non avevo pace…”.

La risposta della madre è tipica di quell’ambiente:

“Ehi tu che mai di nulla sei contento…

uno solo ti può far contento:

Ciccio Saverio che fa le bare a tutti

e nella bara nessuno si lagna mai…”  Poi gli anni sono passati…

“Ciccio Saverio se ne è andato

…ha un figlio giovane… ha quasi gli anni miei è falegname

e questi ha un figlio grandicello:

come il nonno…si chiama Ciccio Saverio e come quello

è falegname e fa le bare a tutti.”

Ed ecco che non sono più “sentenze tarlate, chiacchiere di vecchi”.

“Ma certe volte l’uomo è così cieco

che davanti alla chiesa non scorge il campanile”.

(Dal libro “Mamma e Tate” poesia “la sentenza “ in dialetto bonefrano tradotta).

Questa è l’espressione di una filosofia contadina del periodo.

 Ciccio Saverio io l’ho conosciuto da bambino… (ricorda il primogenito di Antonio) …  costruiva realmente le bare.  Ero con mio padre:

- Come va?-

- Sto facendo la bara per … dicono che stia morendo.  E’ vero?-

Noi avevamo appena visitato questa persona. Azzardai una domanda:

- Ma se questa non dovesse ,,,?-

- E’ merce che va via lo stesso –

 

C’è anche l’usanza di tirare su un maialino che sarebbe servito  a fornire alla famiglia la carne per tutto l’anno.  Quello che però colpisce è come viene sentito dalle persone questo animale.  Noi pensiamo alle salsicce, al grasso, ai prosciutti …ma non vediamo il lato umano:

“Dicono che sei vretto, e non è vero,

la gente la verità non la mai conosce,

… Ma chi è la rolla tua

lo sa che sei pulito…

vedendo come è pulito il letto tuo.

Dicono che sei mala gente

… e chi non è mala mente

se lo fanno inquietare o lo maltrattano?

Ma chi ti tratta bene, lo sa che tu pari un guaglioncello, vicino la mamma.

… E poi viene verno: è tempo di morire

e tu sei come noi:  non vuoi morire.

………….

Gli altri son contenti; ma la padrona

Lontano se ne sta, e a volte piange.”

(Dal libro “Tate” poesia “il porcello” in dialetto bonefrano tradotto).

 

Antonio ha colto l’aspetto della madre di famiglia che, dopo averlo accarezzato, condotto, ed in un certo senso educato, lo vede morire, e sente dispiacere.

 

E’ durante questo periodo che Antonio Perrotta è stato allievo di don Nicola Baccari, sacerdote di grandi risorse e di grande iniziativa.  E’ lui che organizzò, a suo tempo e con i mezzi di allora, un pellegrinaggio ad Assisi.  Per più di cinquant’anni ha svolto, oltre che il ministero pastorale, l’attività di maestro del paese.  Ha avuto, in alcuni casi, come alunni i nonni e poi i loro figli e i loro nipoti.  E’ stato,  oltre che una guida culturale, anche una persona “carismatica” come valorizzatore di Bonefro.

Le uniche scuole presenti erano le elementari.  Le altre, le medie, troppo distanti e non ci sono mezzi di comunicazione.  Parecchi ragazzi arrivavano solo alla seconda elementare. 

Dopo la quinta c’era la sesta e, in alcuni casi, la settima, senza alcun valore di licenza.  La qualità degli insegnanti lascia a desiderare. Su don Nicola Baccari a Bonefro sono tutti d’accordo nell’elogiare le sue qualità di insegnante e la sua capacità in diversi campi naturalistici (impagliatore, collezionista), artistici (come pittore).

 

Nel periodo dell’infanzia Antonio deve adattarsi a diverse situazioni.  Interessante è, tra le altre, la poesia “il cappottello” tratto da libro “A case e n’anne sane”.  Questo indumento lo porta dall’America il padre Celestino.  Dopo averlo indossato, lo trasferisce ad Antonio e, dopo parecchi anni da lui ad un altro parente.

Nello stesso libro viene descritta la situazione strana di questo figlio che, di ritorno dalla prima Comunione, pretende dalla madre un pranzo, per quei tempi, ”luculliano”.  La cosa finisce a “legnate”.

Questo serve a dare un quadro, anche se limitato,  dell’ambiente povero e umano in cui vive Antonio con la sua famiglia a Bonefro. 

E poi ci sono alcune figure caratteristiche : per esempio il banditore.

E’ una persona incaricata di girare per il paese, possiede una tromba ripiegata e dà gli annunci passando per le vie.  La suona e poi comincia: “ Si vende in piazza solo roba bella…;  correte che la roba sta finendo…”.  Poi continuava con le notizie ufficiali: “… per le iscrizioni alle scuole il termine scade…”. Questo avviene due volte al giorno.

Antonio Perrotta lo cita nella poesia “il banditore” del libro “Insieme con Tate”.

L’avvenimento che si ricorda è triste, ma il personaggio è importante come figura informativa di avvenimenti locali.

A Bonefro c’erano anche dei “commercianti – acquirenti - ambulanti”. 

C’è quello che gira per il paese a comperare le uova.  Alza la testa: “Chi t’ha l’ov?”  E continua a testa bassa ripetendo la stessa frase tante di quelle volte.

Altra figura molto importante: il maniscalco.

Ce ne sono diversi in paese e sono necessari. Muli ed asini, li hanno quasi tutti sia come mezzi di trasporto sia per lavoro.  E questi animali bisognava ferrarli perchè il piede deve essere protetto.  .  Bisogna sapersi avvicinare all’animale, sollevare il piede, spaccare l’unghione con le tenaglie, pareggiarlo anche con il ferro rovente, infilare i chiodi tra l’unghione.  Insomma è un lavoro che richiede specializzazione e conoscenza… anche perché, se il mulo non sta bene, chi ara il campo o chi porta i sacchi per diversi chilometri? Questi animali sono considerati dei collaboratori indispensabili che vanno protetti e curati. Il mulo nel lavoro è insuperabile,  e l’agricoltore  vuole bene a lui e all’asino.

Di particolare valore è considerato l’olio:  sia come costo, sia perchè la sua caduta o rottura di recipiente è annunciatrice di disgrazia.

Tale concezione viene descritta nella poesia “l’glie pe ttèrre” del libro “Tate”.

Da un anno é morto il padre Celestino.  Nello smuovere dei vasi cade quello con la salsiccia sott’olio:

“E’ morto”, dice mamma, “il capo di casa

non importa che oggi mi è caduto l’olio!” (Versi tradotti dal dialetto).

La sventura le era capitata prima, quindi non ce ne poteva essere un’altra.  Pertanto non si preoccupa se si è rotto il vaso.

E a proposito di sventura, come può essere il decesso di un parente, Antonio ricorda, nella poesia “Il primo citello”, una manifestazione di lutto diffusa in quel periodo:

“Il primo citello mio aveva due anni

quando mi è morto…

Pàtreto, per lutto, la barba lunga

Per sei mesi ha portato, così si usava

Tanno se uno in casa si moriva…” (dal libro “A case” poesia tradotta)

E’ il pianto della madre di Antonio. Lui ricorda tale lamento e gli rimane impresso nella memoria il modo di manifestare un grosso dispiacere,  facendosi crescere la barba lasciandola incolta.  Dispiacere non vissuto,  ma ricordato tante volte dalla madre.

 

E’ nel periodo liceale – inizio università che Antonio Perrotta scrive “U peise nostre”.  Un inno a Bonefro in cui esprime tutto il suo entusiasmo per la poesia dialettale e la bellezza dei suoi luoghi :”E’ nu re  di peise vicine”. Bonefro è il più bello di tutti !

testo originale della canzone scritta a macchina da Antonio Perrotta, con l'indicazione della data del 3 ottobre 1936

C’è anche una fontana,  “Là – diceva – c’erano attorno grandi querce.  Poi furono abbattute, ma l’acqua non fu più quella di prima.  Era diversa.”  E provava dispiacere per quel danno ambientale.

Un altro avvenimento è la dedicazione delle primizie. Davanti a una Croce là presso il convento delle Suore, la strada che va al cimitero si congiungeva allora con un sentiero.  Lì sulla croce qualcuno aveva messo delle primizie:

“Si tratta di un rito di offerta e di richiesta a Dio di protezione per i raccolti.  E’un rito profondamente religioso e di pietà popolare.”

 

Finito il liceo classico, si iscrive all’università di Roma, corso di laurea in lettere,  dove si laurea nel 1939 dopo aver discusso una tesi sulle tradizioni popolari del paese di nascita:  Bonefro

La tesi era intitolata: “Illustrazione della poesia popolare religiosa raccolta nel Molise”.Il lavoro è poi continuato negli anni successivi.  E’ lui stesso che l’afferma: “Tutti gli aspetti della poesia popolare qui ho esplorato e ho cercato di salvare tutto:  ogni piccolo frammento, anche un solo verso della composizione che colui che me li riferiva ricordava.” (Da introduzione al libro poesia e canti popolari ecc. di Antonio Perrotta).

“Poi venne la guerra e si dovè pensare ad altro…”

 

2° parte: “periodo bellico”

Antonio, giovane laureato, viene avviato alla scuola allievi ufficiali e ne esce con il grado di sottotenente dei granatieri. 

Sono tutti ragazzi entusiasti, sentono l’orgoglio di essere italiani, credono nell’ideologia del tempo, si entusiasmano ai discorsi infuocati.  Non lo si può negare: sono tutti così i giovani di allora.  E il regime li manda in guerra nelle diverse campagne.

 Non è però tanto entusiasta la generazione di suo padre.  Loro l’America la conoscono bene:  ci hanno lavorato.  Correva voce che il presidente degli Stati Uniti avesse dato il tappetino da bagno alla patria.  Il tutto per bilanciare il ferro delle cancellate e l’oro alla patria che il regime aveva requisito in Italia.

“Tu scherzi ! -  diceva il padre Celestino -  L’America  ha la gomma! Ha l’acciaio! Ha il petrolio! L’America ha delle pale che con una passata ti riempiono un camion!” …

Antonio pensava che fossero esagerazioni.  Dovette ricredersi dopo!

“Quando gli alleati arrivarono a Bonefro – e qui è don Nicola Baccari che parla – fecero un concerto nella piazza;  siamo andati a sentirlo.  Beh! fino a quando si parla di clarinetti non importa!

Ma quando vedo i grossi foderi dei tromboni che erano dei cuoioni…”  e allora tirava fuori le conseguenze.

 

Antonio è inviato al fronte occidentale ad occupare la Corsica.  Prima sventura: la nave che porta i granatieri viene affondata dalla marina alleata.  Lui stesso si trova impigliato e si salva per miracolo. Successivamente sbarcati in Corsica, gli italiani riescono ad occupare l’isola.  Ci sono poi altre vicende tra cui un progettato sbarco su Malta, ma non se ne fa nulla.

Seguono poi alcuni fatti che Antonio amava molto ricordare.

I rapporti con la popolazione locale erano ottimi:  gli italiani non erano dei tiranni.  Un giorno aveva preso una forte febbre da influenza.  Ebbene furono le stesse persone del luogo, che prepararono a questo giovane l’infuso di tiglio per fargliela passare.

Altro momento: i viveri non arrivavano e lui andò da un agricoltore a comprare le mele per i granatieri. L’agricoltore gliele diede, ma non volle essere pagato:”c’est pour vous”.  Quando andarono  i tedeschi:” Non ne abbiamo” fu la risposta.

Ma l’elemento culminante è l’8 settembre ed i relativi scontri tra italiani e tedeschi.  Dopo qualche trattativa i germanici passano all’azione.  Trasferiscono le truppe motorizzate dalla Sardegna e usano gli stucas contro il comando italiano.  Poi attaccano il porto di Bastia.  Non vogliono perdere la Corsica.  Occupano Bastia.  I nostri soldati si ritirarono nelle vicinanze e il giorno dopo sferrarono l’attacco:  la battaglia è molto dura.  Gli italiani, male armati e male equipaggiati, riprendono Bastia.  I tedeschi si danno alla fuga via mare.  Ma non riescono tutti.  Tentano una resistenza e alla fine si arrendono.

Al  tenente Antonio si arrende una compagnia di tedeschi.  Il comandante germanico chiede:

- Cosa dobbiamo fare ?

- Mettetevi per due –  e li prende in consegna come prigionieri.

Non è fucilato nessuno né da lui né dagli altri ufficiali. 

(Non è avvenuto in Corsica, ciò che è successo a  Cefalonia e a Marzabotto.)

 “Se c’è davanti a me un nido di mitragliatrici – diceva Antonio – io te lo distruggo, ma poi dopo non infierisco sulla popolazione e sui prigionieri…”

Non si pensi che i rapporti tra Antonio Perrotta e i tedeschi siano sempre stati di contrasto.  C’erano stati, prima della guerra,  interessanti e approfonditi studi di italianistica sui dialetti del  nostro Paese. 

Professori di università tedeschi conoscevano perfettamente la parlata pugliese.  Non solo, ma alcuni di loro venivano scambiate dagli abitanti del posto, come persone del luogo.

Sono stati gli  studi del dialetto molisano e il suo professore dell’Università di Roma, Paolo Toschi, a portare Antonio in contatto con questi studiosi.

 

3° parte:  “ la maturità dialettico-letteraria  ”

Nel 1941 Antonio si sposa con Anna Chiara Maronna di Pesaro.

Nel 1942 nasce il primogenito a cui, come vuole la tradizione, dà il nome del padre: Celestino.

Finisce la guerra,  ritorna a casa dopo aver contratto un forte attacco di malaria. 

Il ddt, introdotto allora, benché nocivo per l’uomo, ha impedito la  diffusione delle zanzare e relative malattie.  Per la malaria però, da un punto di vista medico, non si possiedono rimedi efficaci.  L’unico modo per combatterla  è il chinino (chinofene).

L’Italia è distrutta, la famiglia è sfollata a Macerata Feltria.  Pesaro, tra l’altro, ha subito due bombardamenti:  uno navale e uno aereo.

L’unica soddisfazione di Antonio Perrotta è il conferimento della croce di guerra al valor militare.

Gli viene assegnata la cattedra in materie letterarie presso il collegio postelegrafonici “Villa Marina” di Pesaro.  L’istituto ospita i figli di dipendenti delle poste di tutte le regioni d’Italia.  I ragazzi hanno accenti dialettali diversi.  Non perde l’occasione per collegare il latino al dialetto.  Chiama un allievo e gli chiede cosa aveva fatto durante la passeggiata.  Aveva visto “el bufa” cioè un rospo:” Sai come si dice rospo in latino?”  L’allievo non lo sa.  Prende il vocabolario e rimane di stucco: “Si dice bufo – onis.”

Viene colto lo spunto da questo e da altre occasioni per affermare che il dialetto non è un qualcosa a se stante, ma una derivazione dal latino.  E se questo è vero vuol dire che ha avuto un’evoluzione, una storia e quindi una letteratura.  Fa altri raffronti, poi  assieme agli allievi decide di fare un compito in classe in cui ciascuno si esprime con la propria parlata di provenienza.  La risposta è entusiasta.  Nello svolgimento tutti si danno da fare.

Vengono allargati gli interessi.  Si decide di stendere un vocabolario multidialettale.

Antonio Perrotta porta la sua esperienza anche a un congresso sulle tradizioni popolari organizzato dal prof. Mario Toschi, suo relatore alla tesi di laurea.

L’intervento, oltre a descrivere l’attività di docente scolastico nella “disciplina dialettale”,  invita a portare lo studio dei dialetti nelle scientifiche aule universitarie e ritrasportarlo nelle altre scuole fino a farlo tornare al popolo da cui era partito.

L’appello viene raccolto dai congressisti e, negli atti della conclusione, si “fanno voti” ai governanti di allora per sviluppare le tradizioni popolari, dialetto compreso, nelle diverse regioni d’Italia.

“Il canto popolare non è per il popolo un fatto esterno, un diversivo, un divertimento; ma è espressione di vita anzi dell’essenza della vita. (Dall’introduzione di “ Poesia e canti popolari raccolti a Bonefro nel Molise.”). Pertanto esprime una condanna assoluta verso qualsiasi strumentalizzazione. 

Il prof. Toschi gli comunica che qualcuno sta copiando alcune poesie della sua tesi.  Alcuni ne fanno un testo con note.  Il tutto senza il suo permesso.  Le copiature sono pesanti e le persone che ne usufruiscono giustificano l’atto come una volontà di collaborazione.  Cosa questa che non è mai stata richiesta.  La reazione è molto vivace.  Il tutto poi si spegne con gli anni.  Sembra che la poesia popolare non susciti più quell’interesse di prima. 

Antonio scrive poesie in italiano e in dialetto per conto suo, legate a una questione sentimentale.  Le fa  leggere a diverse persone, ma realmente non sono bene accolte e il giudizio non è positivo.  Lo stesso Toschi le definisce di”letteratura che stanno bene in un libro di scuola e nessuno legge”.

La delusione è grande, ma salutare.  Lui stesso, dopo un ripensamento interiore, capisce che non si può fare una poesia sentimentalistica.  E’ necessario esprimere qualcosa di nuovo e di proprio. Comprende che la morte del padre, avvenuta in quel periodo, non va esternata in maniera fumosa o con fronzoli:  I ricordi bisogna esprimerli in base ad insegnamenti ed azioni quotidiane del defunto.  Su queste azioni va cercato lo spunto per esprimersi.

Da questa nuova concezione rivede le persone estinte:

Di questi non si ricorda più nessuno:

quando uno è morto, perde tute cose!...

… Ma in coppa a voi cresce solo l’erba;

i fiori no: nessuno ce li sementa… (da “i morti scordati” raccolta “Tate” poesia tradotta)

 

Esprime inoltre una  religiosità, per i luoghi di culto, molto legata alla tradizione popolare;

 

“La chiesa  ci ha da stare perché ci vuole.

Tu dici che la chiesa non serve…

…Ma la chiesa ci ha da stare perché ci vuole…

…E quando tu non te lo aspetti,

vuoi ire nella chiesa e non lo sai perché.

Là ci sta Dio, là ci sta santo Antonio;

ci stanno tutti i morti cari a te:

noi abbiamo bisogno pure dei morti…

….

Ma la chiesa ci vuole più della casa…

….

Senza di quella noi non teniamo niente!    (da “La Chiesa” poesia tradotta)

 

E’ tutto un modo di pensare che diventa più concreto:  vede la religione basata sul sentimento tradizionale del paese.

 

Si dedica alla pittura e alla scultura.  Frequenta la scuola del nudo di Torino gestita da prof. Sgroppo.  Rivede il suo modo di dipingere e in alcuni quadri riesce a riprodurre il passato come un qualcosa di presente nella propria memoria.  Segue le tendenze dell’arte moderna.

Ripensa al periodo trascorso, al dialetto del suo paese:  quello che parlava da ragazzo con i suoi genitori e con la gente del luogo.  Siamo negli anni ’60.  Riprende la sua tesi di laurea e la allarga aggiungendo altre espressioni dialettali.  Le notizie del paese non gli bastano.  Raccoglie altri scritti.  Compie alcuni viaggi in Canadà e negli Stati Uniti.  Si reca a New York nel quartiere di New Russel dove c’è una comunità bonefrana.  Incontra lo zio Peppino (Giuseppe Perrotta), emigrato dal 1920.  Sente parlare un dialetto diverso da quello attuale.

Raccoglie testimonianze sulle tradizioni popolari del suo paese;  annota tutto.  Cerca di ricordare le arie delle canzoni dimenticate.  Se le fa ripetere, le rimedita.  Sa bene che queste sono le ultime testimonianze e non ne vuole perdere nessuna.  A Bonefro il dialetto sta scomparendo; in America le persone che ancora lo parlano, sono poche e se ne stanno andando via ad una ad una.

A tale proposito è curioso il fatto che, da un ritorno dagli Stati Uniti, si sente rispondere, proprio nel paese suo:” Ma queste parole non le conosciamo!”

Ecco, cambiano le strutture, i mezzi, gli attrezzi agricoli, le necessità e… spariscono i vocaboli. 

Ma c’è un’altra cosa.  I vecchi d’America ricordano una lingua dialettale che non si è evoluta;  diciamo che si è conservata.  Quella di Bonefro invece comincia a sparire:  si parla sempre degli anni  ’60 e ’70.

Come si è detto Antonio Perrotta riprende e trascrive tutto e, per rendere più comprensibili questi scritti tradizionali, pensa di collocare accanto la traduzione italiana.  Usa però un sistema diverso dal solito.  E’ lui stesso che lo spiega:

“ La traduzione che accompagna i canti è letterale…ogni parola …è nell’esatto posto in cui si trova nel canto in dialetto…”.  Il lettore poi deve sentire nell’italiano un fondo linguistico comune all’espressione tradotta.

“  Perché dovrei tradurre spalazzare con spalancare, eliminando così  nella traduzione una nota di costume contadino quando le porte e le finestre delle case venivano chiuse con un palo dal didentro?  Io quindi tradurrò i termini bonefrani  chianghe, ràchene, spalezzà, non come macelleria, ramarro, spalancare, ma con chianca, ràcano, spalazzare….”

E insiste in questa posizione affermando  “…che non solo la traduzione è fedele al dialetto, ma ha conservato anche la sintassi dialettale.”

Queste affermazioni sono compatibili con un’Italia ancora completamente legata al dialetto, anche se in via di lenta estinzione.

Ai canti, allega poi la musica per renderli più vivi e soprattutto per non farla cadere in alcuni casi nel dimenticatoio.  Lui stesso afferma che alle volte si tratta  “dell’ultima espressione, anch’essa oggi morta, di quella voglia di canto così viva prima della grande guerra”.  Così sente e soffre per una letteratura che rischia di terminare la propria esistenza.

Il lavoro ripreso, dopo una lunga pausa, dura circa vent’anni e nel  1981 vede la sua stampa con il titolo:  “Poesia e canti popolari raccolti a Bonefro nel Molise”.

L’opera ha richiesto, come già detto, oltre che ricerche nel luogo, viaggi in America presso la comunità bonefrana di New Russel, traduzioni con quella forma originale brevemente descritta e musicalizzazione.  Il tutto dopo attento studio e lavoro scrupoloso per evitare errori e riuscire a essere coerenti con lo spirito di chi ce l’ha tramandata.

Il volume “Poesia e canti popolari raccolti a Bonefro nel Molise” è conosciuto e consultabile nelle principali biblioteche del mondo perché Antonio Perrotta ha pensato a inviarlo nei più importanti centri di studio di italianistica, ricevendone ringraziamenti e riconoscimenti.

La stessa traduzione, concepita così, rende comprensibile il significato degli scritti creando un collegamento tra il dialetto locale, l’italiano e molto spesso con il latino.

Non si tratta solo di una trascrizione, ma di un lavoro ragionato e all’avanguardia per come viene impostato e proposto. In questo caso il limite che pone il proverbio :”traduttore traditore” è stato ampiamente superato.

Vale per tutti la risposta dell’Università di Berna:

“ Siamo sicuri che i nostri studenti di italianistica sapranno usare questo libro per i loro studi.”

Quello che teniamo a sottolineare è che si tratta di un testo di prima e valida consultazione e che Bonefro non deve sottovalutare.  Turisti, recatisi in Olanda ad Amsterdam, hanno trovato tale pubblicazione nella biblioteca principale.  Da Madrid arriva una risposta  che comincia: “El Director saluda…” E se vogliamo continuare anche la biblioteca di Mosca ha apprezzato l’opera; l’ambasciatore della Repubblica Popolare Cinese l’ha portata a Pechino personalmente.

Il libro è stato accolto con vero interesse  anche nei centri culturali italiani.  L’università di Urbino addirittura ha messo a disposizione la sua struttura per eventuali ricerche future.

Oltre al libro “Poesia e canti popolari raccolti a Bonefro nel Molise”, Antonio Perrotta rivede e descrive la sua esperienza personale esprimendola con poesie in dialetto.  Anche queste sono presentate con traduzione a fronte con il sistema già detto.  I sentimentalismi sono definitivamente abbandonati.

Scrive nel ’70 il libro  “Tate” pubblicato più tardi nel 1977.   .

Lo stesso Toschi ne dà un parere positivo.  Lo riportiamo di seguito.

“Roma, 27 aprile 1970, Carissimo… la tua poesia è originale, non di maniera, come in genere dei poeti dialettali di oggi.  La tua lingua è l’espressione immediata del tuo sentimento: perciò nelle tue poesie non esiste retorica… “, e poi continua  “… credo che una simile raccolta di liriche possa riuscire utile sia a far conoscere un poeta, sia a far sentire la possibilità espressiva del tuo dialetto…”.

E fu questa raccolta, nella quale si possono anche conoscere le esperienze di vita famigliare a Bonefro, a dare forza, come ammette lo stesso Antonio Perrotta, alla sua  “personale poetica”.

Forse questo libro riporta l’espressione più valida dell’autore.

“Mamme e Tate”, pubblicato sette anni dopo, ma composto precedentemente,  ne costituisce la seconda parte e completa il quadro dell’esperienza dei ricordi giovanili. 

Nella poesia “Carne e maccherone”  viene espressa una grande nostalgia nel quadro di povertà e ristrettezze del tempo.  Addirittura invidia il re che in tempo di guerra (1915 – 1918)  mangiava una pagnotta e una scatoletta !  Ma quanta serenità si sentiva in quel tempo da ragazzo!

E l’altra “Tetucce!” in cui rievoca il nonno e rimpiange la sua protezione:

“Tu mai me le hai date, quando da ragazzo

facevo danni o qualche cattiva azione;…

…Insieme con te davanti al Padreterno

non ho paura il giorno del giudizio

perché tu pure a lui sai dire:

“Che ha fatto questo?  Non lo vedi che è un ragazzo!”. (Da “Nonno” tradotta dal dialetto”).

 

A case e n’anne sane”.  Anche qui sono descritte alcune situazioni del paese, ma con un certo rimpianto.  L’emigrazione ha portato anche solitudine e assenza di persone:

“Quando sono nato io ci stavano tutti,

mamme, tati, tatuccio, vavo, sgravavo;

figli, nipoti stranipoti e oltre:

la casa era piena …”.

… Ma il tempo è finito:

“… e mo non ci sta niente, manco gli spini.

Come è potuto essere?...”.  (Dalla poesia “Pure il nome” tradotta dal dialetto.)

 

Poi Antonio ha smesso di scrivere in dialetto e lui stesso ne spiega il motivo:

“La ragione è che io non penso e non parlo più in dialetto;  e non posso scrivere in una lingua che non conosco più… “.

 Poi parla dei genitori: “Essi hanno espresso, sia pure per mezzo mio, i loro sentimenti  (che poi in fondo erano i miei) in quella lingua; non potevano esprimerli in una lingua che non conoscevano o capivano appena…l’italiano! ”.

 

Antonio Perrotta muore il 23 settembre 1994 a Pesaro all’età di 81 anni.  Lascia le testimonianze descritte e tante altre che i suoi figli, Celestino, Nicola Maria, Sergio, nati a Pesaro,  conoscono appena sia perché lontane  nella memoria, sia perché hanno vissuto in una regione con dialetti, usanze e modi di vivere completamente diversi.

 

Per gli abitanti di Bonefro:  è molto raro trovare un paese con una tradizione popolare così ricca come quella studiata da Antonio Perrotta.